Recensione: Derivae
Qual è il suono di un pianeta brullo, freddo e inospitale, mai toccato da mani umane, tempestato da maree che nemmeno sul Pianeta Ondoso di “Interstellar“ e al più abitato da batteri e microorganismi basati – chessò – sull’azoto? Difficile a dirsi (ovviamente) eppure, sfruttando uno dei mezzi più potenti a loro disposizione – l’immaginazione – i Nero Di Marte con il nuovo “Derivae” potrebbero non esserci andati troppo lontani.
La musica della band tricolore è molto personale (seppur non del tutto originale: gli echi di gruppi di punta come Neurosis e Gojira – tanto per fare due nomi – sono tangibili e per nulla nascosti, NdR) e il suo punto di maggior forza risiede certamente nella capacità di creare atmosfere cupe ed ossessive di straordinario impatto emotivo. Atmosfere che si abbinano perfettamente al colore cui la band bolognese si è ispirata per il proprio monicker, quel nero di marte universalmente conosciuto come una delle varietà più dense ed opache del nero, e che Francesco D’Adamo (chitarra), Andrea Burgio (basso) e Marco Bolognini (batteria), con il determinante contributo alle vocals di Sean Worrell, dipingono in maniera impareggiabile.
Sono sette i pezzi che compongono la scaletta del successore di “Nero di Marte”, sette brani immancabilmente lunghi e complessi, perlopiù impostati sulle ritmiche e su un rifferama freddo ed enfatico. L’album è per buona parte della propria durata interamente strumentale e, anzi, sono molti i frangenti nei quali la voce di Worrell – pur con l’ausilio dell’italico idioma – viene utilizzata come un ulteriore strumento da aggiungersi a quelli “classici” (“Dite”, ma anche e soprattutto l’immaginifica “Il Diluvio”) a creare un effetto sempre più straniante e inumano.
Tale scelta di stile appare da subito molto forte dal punto di vista espressivo quanto di non semplicissima fruizione. “Derivae” ha, infatti, la consistenza della roccia di cui era composto il satellite LV-426 di “Alien“, la densità del Monolite Nero di “2001 – Odissea Nello Spazio” e l’enfasi drammatica di gruppi come i “The Ocean” o i Mastodon di “Leviathan”, ingredienti che si traducono in pochissime concessioni a qualcosa che possa essere minimamente riconducibile al concetto di “melodia” e ancor meno (praticamente per nulla, NdR) a qualcosa di vagamente umano.
Niente orrore post industriale alla maniera di Fear Factory, Strapping Young Lad e compagnia, quindi, quanto piuttosto una pura e massiccia inquietudine dell’ignoto, affrontata in completa solitudine e di stampo quasi Lovecraft-iano nella quale risaltano in maniera abbacinante le sporadiche clean vocals di Worrell (“Pulsar”) e i passaggi più tranquilli dosati all’interno di brani come “Simulacra”.
La caratura artistica è indubbiamente elevata, la difficoltà di fruizione- come anticipato – altrettanto se non oltre; gli amanti delle sonorità di gruppi come quelli poc’anzi citati certamente li conosceranno già, per tutti gli altri “curiosi” il consiglio è di provare a dare una chance ai Nero Di Marte, non è cosa da tutti poter vantare tra le band “di casa” un gruppo di assoluta avanguardia.
Stefano Burini