Recensione: Desert of Tears
I Ruffians sono tornati con un disco nuovo: lunga vita ai Ruffians! Molto probabilmente avrei iniziato così la recensione di Desert of Tears, se fosse uscito, ad esempio, nel 1986. Invece vede la luce nel 2006, nonostante si rifaccia spudoratamente alle sonorità più ortodosse dell’HM degli anni Ottanta, non SOLO necessariamente quelle made in Usa. I Nostri vedono i natali alla fine del 1983, a Oakland, California, per mano di Craig Behrhorst(chitarra), Luke Bowman(batteria) e Chris Atchison(chitarra). Poco dopo entrano Carl Albert(voce) e Dan Moura al basso. Il 1984 viene suggellato dal loro primo demo tape e quel periodo da una serie impressionante di concerti a supporto di Saxon, Slayer, Ufo, Dokken, Alice Cooper, Y&T e altri non meno importanti. Un anno dopo, nel 1985, viene pubblicato l’Ep omonimo, ancora oggi l’unica uscita ufficiale di loro materiale inedito, non considerando questo Desert of Tears.
E’ dello stesso periodo la dipartita del vocalist Carl Albert, poi approdato ai Villain e successivamente ai Vicious Rumors. Dopo più di cinquanta cantanti audizionati, entra nei Ruffians Rich Wilde (dove ho già sentito questo nome? Ah,ah,ah!). Da lì altri due demo fino allo scioglimento del 1989. Passano ben quindici anni e nel 2004 avviene il miracolo: i Nostri si riuniscono per uno show al Bang Your Head festival. La Hellion, cavalcando l’onda dell’entusiasmo, pubblica l’Ep del 1985 in Cd con l’aggiunta di bonus track live, così come escono le due compilation 85&Live nel 2004 e There&Back nel 2005. Dopo la morte per incidente automobilistico del fuoriuscito Carl Albert nel 1995, è di quest’anno il decesso di Dan Moura, bassista degli inizi.
Desert of Tears
Si parte con un riffone stra-abusato nel metallo classico che, però, fatto dai Ruffians graffia alla grande cancellando vent’anni di guerra dei watt: sto scrivendo relativamente a I Believe, l’opener del disco. Il cantante Rich Wilde dà subito l’idea di che pasta sia fatto: uno cresciuto a pane, Rob Halford e David Wayne! Running Blind è una sana cavalcata Nwobhm che leva un poco il piede dall’acceleratore così come Day of the Champion risulta essere ariosa e di facile presa. I Will Fly suona marziale al punto giusto con un Rich ruvido e sofferto che rimembra il suono emesso da una gola senz’acqua da una giornata! La successiva Desert of Tears non fa gridare al miracolo ma ci pensa la straclassica Darkest of Light a rimettere le cose a posto: chitarre raddoppiate e un singer epico al punto giusto, con un solo centrale anni Ottanta d’altri tempi. Il binomio It Ain’t Over e Live by the Sword ha l’effetto di un uno/due del miglior George Foreman d’annata, con la prima dolce e ispirata: una ballad niente affatto stucchevole che non ci si stanca mai di sentire e la seconda a la Saxon/Sword dura, feroce e massiccia. A mio avviso i due highlight di Desert of Tears. Dopo la band di Biff Byford non potevano mancare le influenze Iron Maiden ed eccoci serviti: Chosen One. Soldiers Fate è ancora old school metal per via dei duelli demodé di Behrhorst/Atchison e cala il sipario con Freedom, pezzo dall’affascinate arpeggio iniziale di chitarra che poi sboccia in un’altra dose di sano, feroce metallo, con Rich Wilde che si sgola nel chorus.
I Ruffians fanno ancora oggi quello che proponevano (e bene) a metà anni Ottanta: il loro songrwriting vintage è sempre ispirato e ficcante nonostante il buon Rich Wilde abbia perso un poco di smalto, per via dello scorrere inesorabile del tempo. La produzione risulta essere al passo con quelle attuali.
Tutto questo a me basta, spero anche a voi.
Stefano “Steven Rich” Ricetti