Recensione: Desolate
Gli Ophidian I vengono dall’Islanda, anch’essa toccata, seppure in maniera marginale, dall’alone di maestria che contraddistingue le band che praticano metal estremo. In questo caso, il technical death.
Il quale mostra subito una certa propensione a essere accattivante. A modo suo, certo: mica ci si possono aspettare ritornelli catchy a là At The Gates, tanto per menzionarne una… tutt’altro. Nell’intricata selva di note che costituisce la struttura portante di “Desolate” secondo full-length in carriera, si possono trovare infatti dei ricami di chitarra segnatamente armonici; così come accade nell’opener-track ‘Diamonds’.
Scritto ciò, non si può che rimanere a bocca aperta davanti a una manifestazione di tecnica esecutiva eccelsa. Ai massimi livelli possibili, verrebbe da dire. Segno, anche, che i sette anni di blocco – dal 2014 a oggi – sono serviti ai Nostri per affilare al massimo le proprie armi da guerra.
Armi da guerra che disegnano nell’aria ardite e complicatissime sequenze di accordi, pattern di batteria, linee di basso. Compresa l’interpretazione vocale di John Olgeirsson che, non si sa come, riesce quasi incredibilmente a porre le basi del suo growling su un terreno che definire accidentato è poco. Non è un cantato rivoluzionario, bisogna sottolinearlo, purtuttavia è già un’impresa riuscire a stare dietro a quello che combinano i suoi forsennati compagni. In maniera peraltro sicura e omogenea nonostante la presenza di un drumming spaventoso, complesso, velocissimo, che spesso e volentieri affonda i colpi nel territorio dei blast-beats; definendo conseguentemente Þórður Hermannsson come uno dei migliori battitori in senso assoluto. Data, anche, la precisione incredibile del suo lavoro, nonostante un altissimo livello di difficoltà.
Posto e considerato che il basso armeggiato da Ragnar Sverrissonsson svolge un compito tutto sommato scolastico, ovviamente a livello universitario, il grande valore posseduto del combo di Reykjavík è insito nella coppia di chitarristi: Daníel Máni Konráðsson e Simon Thorolfsson, soprattutto per una ridda di assoli di grandissima qualità, a volte sfocianti in neoclassiche scale che avvolgono un sound sempre e comunque terremotante.
Operazione non certo semplice da gestire, poiché gli Ophidian I pestano come fabbri, pure. Il sound sopra citato, infatti, si materializza come una tremenda mazzata sulla schiena, a livello di pura potenza. Un’aggressione sonora devastante, dirompente, annichilente (‘Captive Infinity’), che ben di rado si può osservare in altri act che praticano lo stesso (sotto)genere.
Sound violentissimo e abilità esecutiva non sempre vanno a braccetto, poiché accade più di una volta di essere testimoni di un ossimoro che non funziona se non in rare occasioni: all’aumentare dei BPM, difatti, tendono ad assottigliarsi i watt, intrappolati in se stessi, soffocati dalla testardaggine di volere dimostrare al Mondo di essere i più bravi di tutti. Trappola cui si tengono accuratamente a distanza Olgeirsson & soci, impegnati, nondimeno, nel costante massacro di timpani, neuroni, assoni, e tutto quanto serve all’essere umano in ordine al senso dell’udito.
E non è tutto, giacché anche la composizione si mostra fuori dalla norma. Le canzoni, che si possono definire così perché hanno un capo e una coda ma soprattutto un senso, scorrono via in maniera sbalorditiva, anche grazie alla summenzionata aurea melodica. Concrete, ben diverse le une dalle altre, connotate da singola personalità, riportano al technical death metal il piacere dell’ascolto. Anche ai meno appassionati della foggia musicale di cui trattasi. Perché “Desolate” è tutt’altro che un tedioso coacervo di migliaia di note per metro cubo, ma un LP vero e proprio. Con una sua anima, un suo carattere, un suo perché, formato da brani che lo dipingono con colori sempre più accesi a mano a mano che procedono i suoi passaggi nei lettori CD, mp3 o quant’altro si voglia.
In una sola parola, sorprendente!
Daniele “dani66” D’Adamo