Recensione: Desperate Dreams
I miei sogni sono come petali di rosa che,
mossi dal vento caldo del deserto,
formano in cielo un arcobaleno di infiniti colori.
“Desperate Dreams” (2015) è il terzo full-length in carriera della one-man band azera Violet Cold, preceduto, anche, da numerosi EP, split e single. Così come, successivamente, è stato pubblicato un altro cospicuo numero di opere, fra cui il capolavoro “Anomie” (2017).
Emin Guliyev, il tuttofare dei Violet Cold, dev’essere un uomo dalle idee senza limite, dai sentimenti profondi, avvolti da un languore a volte dolce, a volte disperato. Un uomo in grado di far risuonare le corde dell’anima degli uomini che percepiscono l’invisibile.
“Desperate Dreams” è un altro suo masterpiece di post-black, mirabile genere musicale nato dall’unione della shoegaze con il black metal; ove le caratteristiche emozionali dei padri trovano clamorosa amplificazione nell’unico, amato e sofferente figlio.
I Violet Cold fanno storia a sé, poiché non c’è altra realtà musicale in grado di scatenare sentimenti fortissimi, a tratti violenti, sempre adombrati da una riga di lacrime per le intense emozioni che riescono a scatenare, libere, nel cuore di chi ha la fortuna di ascoltarle.
‘Light Years Separate Us From Home’, una song incredibile, concepita dagli dei, nella quale regna lo stato di trance susseguente a quando si ha a che fare con un’opera d’arte al di fuori dello spazio, al di fuori del tempo. Sublime bellezza che induce a ricercare, fra le stelle, i frammenti dei propri sogni perduti. Una song commovente, ove Emin urla disperato tutto il suo strazio di una brutale consapevolezza: il Mondo, la Terra, sono semplici agglomerati di atomi e molecole in cui l’essenza degli uomini resta intrappolata in eterno, senza poter osservare da vicino gli astri dello spazio infinito, e con esso i pianeti, le stelle, le caleidoscopiche nebulose che danno origine alle galassie.
‘Desperate Dreams’, la title-track, e l’invocazione continua, travolta dalla grandiosità senza fine di una musica che, come una sostanza psicotropa, altera la percezione dei sensi per lavare lo sporco della materialità sì da poter, quindi, volare a occhi chiusi a scovare fra la polvere stellare l’essenza pura della vita. Essa intesa non come un susseguirsi di banali eventi temporali quanto come un insieme indefinito nelle sue coordinate cartesiane, contenitore di sensazioni colorate ed eteree ma tangibili, che perforano lo spirito talmente sono vere, talmente sono penetranti.
Dopo l’esplosione stellare di ‘Light Years Separate Us From Home’ e ‘Desperate Dreams’, la fuga dalla supernovæ dell’annichilamento prosegue grazie al carburante emotivo fornito dalla grandiosa ‘Endless Journey’, rappresentate il viaggio senza fine che occorre compiere per giungere alla purezza di ciò che l’Uomo chiama Dio ma che, in realtà – almeno a parere di chi scrive – , identifica un Big Bang al contrario. La contrazione, cioè, di tutti i multiversi esistenti sino ad addivenire all’istante finale dell’esistenza del tutto. Lì, trovano pace le menti di coloro che trovano questa realtà tragicamente squallida, semplicistica; ove i sogni più arditi, più intensi, più laceranti non trovano modo di fuggire dalla trappola la quale altri non è che la vita così com’è percepita dall’Umanità.
Così, si comprende che l’uomo che si chiama Emin Guliyev possiede un dono di raggiante luminosità: quello di staccare, spezzare, rompere il cordone ombelicale che lega gli intelletti più gentili al Mondo così come viene visto dagli occhi del corpo ma non con quello dell’anima. Per far sì che si possa sognare a occhi aperti, che si possa volare con il pensiero, che si possa fuggire dalle miserie di una Terra squarciata dalle crudeli bassezze degli uomini, impegnati ad auto-annientarsi.
Ancora una volta, una coraggiosa ritirata per chi sogna.
Ancora una volta, un capolavoro.
Ancora una volta, Emin Guliyev.
Daniele “dani66” D’Adamo