Recensione: Destination Dystopia
E con questo sono otto, i full-length partoriti dai Burden Of Grief. L’ultimogenito, “Destination Dystopia”, è l’ultimo di una produzione discografica in cui la densità è massima, dato atto che le altre tipologie quali EP, split, live, ecc., sono praticamente assenti. Tutta sostanza, insomma.
Malgrado ciò, i tedeschi, seppure supportati da una label importante come la Massacre Records, non sono mai riusciti a sfondare del tutto, navigando nel limbo ove sono intrappolate le band cui manca sempre qualcosa per compiere il definitivo salto di qualità.
Detto questo, non resta che concentrarsi sul loro melodic death metal. Il quale, poi, tanto melodico non è. Rispetto al passato pare infatti che la componente energetica sia aumentata a discapito di quella armonica. Il sound del disco è quindi possente, massiccio, a tratti monumentale. Sound che spacca gli altoparlanti con la pressione di un muro di suono le cui componenti planari, e lo spessore, sono di tutto rispetto.
Malgrado quest’ultima aggiunta di potenza, i Burden Of Grief hanno sempre evitato i cliché del genere, soprattutto per quanto riguarda il loro stile, abbastanza lontano dalle forme classiche, slacciato dalla stretta dei dettami imposti dalla definizione enciclopedica del death melodico. Con che, dando vita a un stile, appunto, assai moderno ma adeso fortemente al death classico (‘Downfall’). Con un bel po’ di melodia, ma senza esagerare. Come dire, semi-melodic death metal.
Del resto quanto sopra si può facilmente evincere dall’opener-track ‘World Under Attack’, la quale funge da cartina al tornasole per evidenziare un suono estremamente vigoroso, sostenuto principalmente da up-tempo che, in talune occasioni (‘Fall into Oblivion’), aumentano i loro BPM per sfondare la barriera dei blast-beats.
Mike Huhmann, a dirla tutta, è un vocalist che di melodico non ha nulla, nel percorrere linee vocali poderose, segnate da growling duri e profondi nonché harsh vocals rabbiose. Melodia che, al contrario, è dovuta esclusivamente alle chitarre soliste. Le quali sono le uniche deputate alla costruzione armonica del ridetto semi-melodic death metal. Philipp Hanfland e Dominik Hellmuth si può dire che rappresentino l’anima del combo teutonico in tutto e per tutto, giacché è da loro che si esprimono i cambiamenti di umore, la ritmica imponente, la ferocia di riff dal sapore thrashy (‘Exposed to the Dark’) e, soprattutto, come detto, l’elaborazione delle armonie grazie ad assoli dal gusto sopraffino. Di gran classe, sarebbe da dire dopo aver ascoltato quelli di ‘The Devil’s Bride’ e della closing-track ‘My Suicide’.
La sezione di spinta non presenta alcuna novità in materia, esprimendosi tuttavia in maniera perfetta per quello che il quintetto di Warburg intende tramandare ai posteri: professionalità, forza, irreprensibile esecuzione strumentale e, si ripete, modernità, dato atto che l’act mitteleuropeo è nato nell’ormai lontano 1994. Quest’ultima peculiarità c’è da dire che fa onore ai Nostri, sempre al passo coi tempi, incuranti di mode ed evoluzioni che li potessero portare al di fuori dei propri confini compositivi.
E, a proposito di composizione, è qui che insiste il peccato originale che costringe Huhmann e compagni a vagare per il Purgatorio: la difficoltà di creare motivi che restino in mente per lungo tempo e la fatica nell’assimilarle per una personalità mai sufficientemente marcata. Il songwriting, anche in questo, è esente da critiche negative, se lo si osserva in modo letterale. Le tracce sono costruite in maniera pressoché scevra da errori, indecisioni, cali di tensione; tutte obbedienti – nessuna esclusa – allo stile dell’LP. Una maturità e completezza che fanno onore ai Burden Of Grief ma che, allo stesso tempo, indicano il loro punto debole, rinvenibile nella mancanza di quel quid in più tale da far sì che la fase costruttiva delle song non riesca a discostarsi più di tanto da un approccio tutto sommato scolastico.
“Destination Dystopia” è un’opera realizzata impeccabilmente in tutte le sue componenti. Tecnicamente, non esistono lacune, debolezze, e la qualità esecutiva che la contraddistingue è di alto livello. Malgrado ciò, appare destinato al dimenticatoio per via di canzoni troppo povere di anima e cuore per lasciare un segno indelebile nella mente del pubblico ascoltatore. Data l’estrema qualità realizzativa, la sufficienza è garantita, ma poco di più per tutto quanto rilevato in ordine ai singoli episodi.
Daniele “dani66” D’Adamo