Recensione: Destroy All Humans
Un logo pienamente anni Ottanta e una copertina minimale ma dal notevole impatto, che punta dritta all’obiettivo (nemmeno troppo metaforicamente), aprono le porte al ritorno degli Hittman. La band di New York assieme ad act come Queensrÿche, Fifth Angel, Shok Paris era stata portavoce fin dalla prima ora di quel metal elegante e melodico, tipicamente americano, imparentato col power, ma dalla mentalità aperta verso trame non scontate. L’omonimo esordio del 1988 era già un bell’esempio di US heavy, adrenalinico e con melodie “stradaiole”, il successivo Vivas Machina (1993), più elaborato ed “evoluto”, aveva scompigliato le carte in tavola, mostrando una coraggiosa fusione tra Operation: Mindcrime e Slave to the Grind. Un album “fuori schema” per l’inizio degli anni Novanta, che potrebbe spiegare la scomparsa degli Hittman senza eccessivo clamore.
Oltre un quarto di secolo dopo, Destroy All Humans recupera il lato più metallico della band e si pone come punto di ripartenza. Traghettare ai giorni nostri le sonorità di quegli anni non è impresa facile, un tentativo che ha reso molte band pallide ombre di se stesse, ma gli Hittman sfuggono alle paludi dell’amarcord e mostrano sincerità di songwriting. I sette minuti della title-track chiariscono gli intenti: breve intro futurista, riff robusto, fraseggi tra chitarra ritmica e solista. Un brano di classic US metal che raggiunge subito la melodia portante e si velocizza nel refrain, dove la voce di Dirk Kennedy trova momenti di pathos e potenza senza per forza salire su note impossibili. La successiva Breathe gioca sulle emozioni, con linee vocali che si stampano in testa e vi rimangono, anthem perfetto per la resa live, in cui ogni nota è al posto giusto. Doppietta che da sola vale l’acquisto dell’intero platter.
The Ledge si pone sulla scia dei Queensrÿche (l’influenza della band di Michael Wilton emerge su molti brani), melodica, quasi una semi-ballad, con parti ariose, basso progressive, assolo hard rock, potrebbe insegnare a varie band europee come suonare autentiche senza essere ruffiane. In Code of Honour c’è qualcosa dei Leatherwolf, riff “ordinari” assumono un andamento sempre più dinamico, mentre la voce di Kennedy segue dettami à la Tate. Total Amnesia è il pezzo più “europeo” del lotto, ed è proprio quando scivolano su queste sonorità che gli Hittman convincono meno. L’andamento strumentale di 1000 Souls ricorda i Crimson Glory, altri compagni di avventure di un’epoca d’oro, con parti vocali che non seguono le vette di Midnight ma si muovono su note più “dolenti” ed evocative. Out in the Cold scorre senza troppi sussulti e lascia spazio a Love, ‘The Assassin’, in cui chitarre e voce dialogano su diversi registri e le parti soliste si confermano di pregevole fattura.
Destroy All Humans si presenta come un album compatto, si farebbe un torto a osservarlo con sguardo rivolto soltanto verso il passato. E risulta alquanto ingeneroso confinare gli Hittman in festival “a tema” come Keep It True e Up The Hammer. La voce di Kennedy e il bel lavoro alle chitarre di Jim Bacchi e John Inglima meritano la prova di palchi più mainstream. Un lavoro di spessore al pari di altri ritorni eccellenti come Cirith Ungol e Fifth Angel, band di valore e non semplicemente “vecchie glorie”.