Recensione: Destructive Machine’s Chilling Time 3:27
I RiseuP sono una band death-groove metal che si è formata nel 2012 a Pszow, Slesia, Polonia, con la maggior parte dei musicisti provenienti dal precente progetto Digger. Con influenze che spaziano dai Type O Negative ai Woods of Ypres, i nostri ci presentano il debutto Destructive Machine’s Chilling Time 3:27 (titolo interessante, in onore del momento del mattino in cui, dopo aver suonato tutta la notte, la band si concede il meritato riposo)
L’ascolto ci proietta indietro di una ventina d’anni, periodo nel quale nel panorama metal regnavano incontrastati da un lato il death svedese e dall’altro il nu-metal. Da tale presupposto si potrebbe dedurre che il platter non inventi nulla di nuovo, detto ciò andiamo ad analizzarlo.
Con un riff di chitarra senza particolari pretese, “Rise” ci introduce all’album e ci catapulta immediatamente nel caos dove spiccano una batteria meccanica in doppio pedale, e un’ intricata tripla miscela di screaming vocals, voci parlate e canto tradizionale (evocativo l’iniziale “Fear not the dead but those who are alive”). La mescolanza di stili vocali a cura del duo Stanek / Ratajski è il biglietto da visita e vero marchio di fabbrica della band, rappresentando un punto focale che ricorrerà all’interno dell’album. Questa opener non è una traccia particolarmente pesante o veloce ma mantiene costantemente un ritmo solido per cui risulta difficile non ritrovarsi a muovere il capo e battere i piedi. In contrapposizione, il testo suggerisce che i momenti più bui ci rendono più forti, insegnandoci ad imparare a sopportare le cicatrici. Non male come apertura.
La successiva “Unfaith” aumenta il tiro e colpisce dritto in faccia fin dall’attacco. Quì si strizza l’occhio a quel periodo in cui, che piaccia o meno, regnava sovrano il nu-metal. Le voci a triplo strato nel ritornello aggiungono un elemento interessante che fa drizzare le orecchie, e i versi introducono alcune voci semi-rappeggiate. Sono proprio queste a convincere pienamente, in particolar modo la performance baritonale quasi ironica nel ritornello. Ottima la sezione strumentale nel breakdown, sicuramente molto meccanico a’ la Fear Factory, che convince nel suo crescendo di intensità fino alla conclusione.
Se fino ad ora ci siamo solo scaldati, si comincia davvero a ragionare con “Crown”. L’attacco ha un sapore di ‘Svezia di inizio millennio’ (chi se li ricorda i Terror 2000 o i The Crown?) ma addentrandoci nella traccia riecheggiano i Lamb Of God e i Devildriver. Il brano si colloca esattamente nelle nicchie del modern metal e del groove getal. Probabilmente la mia traccia preferita finora, con un altro breakdown micidiale a metà canzone. Ancora una volta gli strati di voci frenetiche e pulite si fondono bene con il ritmo pesante e corposo.
“Digital Whore” inizia con chitarre pulite che ricordano i compianti Nevermore, poi si appesantisce con dei palm mute precisi e con una voce inquietante a metà strada tra il parlato di Anders Fridén e Jonathan Davis. La matrice di casa Korn prosegue con il suo ritmo pesante e la melodia vocale fuori dagli schemi. Il brano scorre davvero bene e la sezione strumentale conclusiva impreziosisce il pacchetto.
Ci avviciniamo alla prima metà dell’album con “Fire Still Burning” che presenta alcuni dei migliori riff di chitarra dell’accoppiata Kolus / Krzystala. Il brano inizia con alcune chitarre pulite pesantemente effettate che costruiscono un’atmosfera spaziale. Un rapido schiaffo in faccia con il pedale whammy ci getta nella prima strofa con le ormai note voci stratificate che ancora una volta colpiscono con una varietà timbrica e interpretativa unica, spaziando dall’ironia macabra alla pura disperazione in pochi secondi.
Si inserisce a questo punto una traccia noise intitolata “Inglorious 13”, nient’altro che 27 secondi di rumore crescente, completamente senza senso. Apprezzabile da un certo punto di vista per cui concediamo la licenza poetica.
L’ energia vivace e animata della successiva “Jim B”, con un’attitudine quasi da canzone rock, ci presenta il lato più commerciale della band. Avendo a che fare con il bere, questa è la party track dell’album, sicuramente ottima da vivere in sede live. Il tema più che ovvio, presentato nel ritornello “drink, drink, drink!” ed esplicato con sovrapposizioni di voci parlate e growl che fluttuano ipnoticamente, in realtà ci dice che l’alcool rende falsi eroi che sopravvalutano le proprie capacità.
Il tono cambia con la pesante e frenetica “Misery” che presenta un ritornello da urlo che rimane impresso nella mente. Il pedale whammy fa di nuovo la sua apparizione in varie sezioni del brano mentre il potente blast beat del batterista Sulski ci ributta nella ferocia delle strofe. Una strana sezione di intermezzo include nuovamente la splendida contrapposizione tra gli screaming vocals e lo spoken word dal suono disperato.
Si ritorna al groove martellante con l’esilarante ed entusiasta “Slonski Wurszt”. La sezione ritmica mette in evidenza un sound massiccio mentre una chitarra sostenuta conferisce spazialità al tutto. Ci rendiamo subito conto che le voci sono cantate in un’altra lingua, tre in effetti: ceco, polacco e tedesco. Nonostante ci si possa aspettare di tutto per quanto riguarda i contenuti del testo, il titolo è letteralmente il nome di una salsiccia della Slesia, metaforicamente in equilibrio con il mix linguistico in quanto il testo tratta dei suoi molteplici ingredienti. Il messaggio è chiaro. Le culture si fonderanno, e questa è una buona cosa. La consapevolezza viene dalla celebrazione della diversità, e la diversità è la spezia della vita. Dal punto di vista stilistico, l’elemento death della band è celato proprio in questo brano, difficile da catalogare, tuttavia -a parere di chi scrive- il più interessante, progressivo e innovativo dell’album.
Siamo in direttiva d’arrivo e i RiseuP dimostrano l’abilità di saper mantenere le cose interessanti fino alla fine. La vivacità ardente di “Prophecy” con il suo coinvolgente crunch e il piacevole tremolo della chitarra, allude alle scritture e alla nostra errata interpretazione di entrambi i testamenti, che ci porta all’ipocrisia e alla paura in opposizione alla pace e all’illuminazione.
La fine di Destructive Machine’s Chilling Time 3:27 arriva con un’ultima, spietata scarica metallica sotto forma di “Gutter”. Le ritmiche serrate sono una mitragliata in pieno petto e a livello stilistico riusciamo a percepire i tanti lati di una band che, pur non avendo inventato nulla di nuovo, ha saputo attingere da quanto imparato rimescolando le carte in tavola e conferendo una freschezza inaspettata ad un genere che pareva già morto e sepolto.
Colpisce anche la produzione cristallina a cura di Arkadiusz Dzierzawa (Sandbreaker, Mors, Carura) alla Lighthouse Audio. L’album presenta un suono di chitarra ricco e deliziosamente sporco, completato da una batteria furiosa e da tracce di basso schiaccianti. Di conseguenza, le sovrapposizioni vocali (vere protagoniste) possono permettersi di essere maestose, sorprendenti e diverse, dinamiche ed esplorative, in quanto sorrette da una vera e propria macchina da guerra.
Cattivo e carnoso, groovy e gutturale, moderno e intelligente..questo è un signor album.