Recensione: Devilution
Giungono alla seconda release gli Apostasy, band il cui esordio dello scorso anno non aveva fatto gridare al miracolo malgrado un discreto battage promozionale da parte della Black Mark e qualche recensione benevola.
L’apertura di questo nuovo lavoro, affidata a “Malignant”, ci mette di fronte a un black metal dalle connotazioni marcatamente sinfoniche nelle partiture di tastiera e dalle accelerazioni spesso confuse, direttamente influenzate dalla scena svedese e norvegese (e non potrebbe essere altrimenti). I sette minuti di “Sulphur Injection” aggiustano il tiro inserendo discreti cambi di tempo e alcuni break ben articolati con la batteria di Richard Holgren precisa e puntuale negli interventi. Purtroppo l’incedere zoppicante di “Virus” e la fiacca “Supreme Architecture” non aiutano a perorare la causa degli scandinavi, affossati da un tappeto di tastiere scontato, chorus sui generis e una cronica monotonia di fondo in virtù di vocals deboli, prive della necessaria cattiveria e malignità. E’ proprio Fredric Edin il tallone d’Achille di una band che rialza la testa nei riusciti stop and go improvvisi di “Vengeance” ma che soffre irrimediabilmente la produzione eccessivamente pulita finendo per appiattire ulteriormente un songwriting altalenante che con il passare del tempo mostra francamente la corda.
Gli otto pezzi contenuti in Devilution si assomigliano un po’ tutti, palesando innumerevoli punti di contatto con bands quali Dimmu Borgir, Cradle of Filth e sfiorando addirittura il plagio in alcuni frangenti. “Salvation Denied” e “Soul Grime”, che nelle intenzioni dovevano rappresentare l’armaggeddon sonoro di questa seconda uscita, non riescono in realtà a ritagliarsi uno spazio nella memoria di chi ascolta. Il black metal è genere da vivere e sentire profondamente per apparire credibili, se gli stessi Dimmu Borgir mostrano la corda ammorbidendo eccessivamente il sound non vedo come possa convincere la scelta degli Apostasy di concentrare l’attenzione su giri di tastiera triti e ritriti e su una malsana predisposizione nel porre l’accento sulla cadenza e la pesantezza dei pezzi piuttosto che privilegiare l’assalto all’arma bianca o la varietà espressiva. Non è un caso che a centrare il bersaglio grosso sia la conclusiva “Suicide Breeze“: metal song per antonomasia, per la serie di riff marziali, gli intrecci di chitarra di maideniana memoria, un ottimo uso delle ritmiche (sotto la voce King Diamond) e, dulcis in fundo, lo splendido affresco strumentale del finale.
Non si intravedono margini di maturazione significativi, malgrado la suggestiva copertina, una ragguardevole padronanza degli strumenti e la scelta di limitare al massimo il numero dei brani. Non posso far altro che confermare le perplessità nate con l’ascolto del precedente “Cell 666”, ahimè troppo poco per potervi consigligliare l’acquisto.
Tracklist:
1. Malignant
2. Sulphur Injection
3. Virus
4. Supreme Architecture
5. Vengeance
6. Salvation Denied
7. Soul Grime
8. Suicide Breeze
Alessio “Blemish” Minoia