Recensione: Di Eroica Stirpe
Aspettavo questo album da molto tempo.
Da quando, per l’esattezza, ho appreso con dispiacere dello scioglimento dei Draugr, avvenuto sei anni fa. Ora, io non so voi ma a me “De Ferro Italico” era piaciuto parecchio, grazie al suo perfetto mix di metallo epico, svolazzi folk, brutalità black e tanta, tanta coatteria, tanto che ancora oggi me lo riascolto a intervalli regolari e sempre con, negli occhi, lo stesso sguardo di antica ferocia. Quando seppi da un amico della nascita degli Atavicus dalle ceneri dei sunnominati Draugr, poi, la speranza si riaccese. Oggi, dopo un EP del 2014 e un paio di singoli – che trovano collocazione all’interno di questo lavoro – posso finalmente gioire nell’avere tra le mani “Di Eroica Stirpe”, il debutto ufficiale degli Atavicus.
Il genere che il terzetto abruzzese propone non si discosta molto da quanto proposto nella sua precedente incarnazione, anche se i nostri puntano su una resa più sferzante, arcigna: da un lato, la componente prettamente folk viene abbastanza accantonata (almeno nel comparto musicale, dato che per quanto concerne i testi i nostri proseguono nel loro percorso di divulgazione); dall’altro, l’afflato epico che aveva preteso piuttosto spesso le luci della ribalta grazie ad exploit improvvisi si fonde, qui, con la violenza sonora. Il risultato è un lavoro ferino, ruvido, che assale l’ascoltatore con blast beat furibondi e riff gelidi, conditi da uno scream raschiante e dalle possenti incursioni delle tastiere. I fan di “De Ferro Italico” potrebbero trovarsi un po’ spiazzati da questa deriva più selvaggia, e il timore che gli abruzzesi abbiano perso per strada una componente importantissima della loro miscela così esplosiva potrebbe facilmente affiorare alla mente. Poi, però, arrivano schegge impazzite come gli ultimi trenta secondi di “L’Estasi del Sangue”, con la citazione dell’eterno Conan di Milius, e in un attimo si torna a casa. Ed è tutto bellissimo.
Esplicativa della rotta degli Atavicus è la prima traccia: “Come Nasce un Eroe” parte a spron battuto creando un vortice ritmico impetuoso, rinforzato da una voce iraconda ed ingentilito, almeno in parte, dall’ingresso in scena del flauto. Il rallentamento che infonde alla composizione la sua connotazione trionfale apre a un arpeggio tranquillo che, a sua volta, cede la parola al solo e all’intervento narrato prima di buttarsi nell’enfasi del finale. Un bell’inizio, anche se i cori non mi hanno convinto appieno per via di una resa, per me, troppo grezza. “L’Estasi del Sangue” prosegue il discorso mantenendo le stesse coordinate: batteria rutilante, chitarre e voce taglienti e, di tanto in tanto, la cascata delle tastiere ad infondere uno squillante eroismo al tutto. La canzone si mantiene per buona parte su ritmi sostenuti, salvo poi smorzare la velocità in occasione dell’intermezzo che apre l’ultimo terzo, assai più maestoso. La ripartenza conclusiva inietta nella miscela una nuova dose di melodia, qualche flebile elemento folk e tanta, tanta epicità: come dicevo prima, mezzo minuto che vale tutto l’album. Si passa ora alla smargiassa “L’Ardire degli Avi”, singolo del 2016. A sostenerla è un giro di chitarra teso, che ben presto si carica della solita insolenza grazie all’inserimento delle tastiere; la traccia procede così, alternando violenza e riff melodici fino al rallentamento che apre l’invocazione finale. Con “Divina Lama Invitta”, invece, i nostri tirano il freno: la canzone incede con fare marziale, screziato da improvvise accelerazioni protervamente black e da rallentamenti magniloquenti dominati dalle tastiere. Anche qui, la sezione centrale gioca con una certa enfasi trionfale più lenta, solenne, prima di tornare alle sventagliate gelide delle chitarre, seppur profumate da una certa ricerca melodica. Anche qui, il coro finale mi ha lasciato un po’ perplesso, ma si tratta di dettagli. Ciò che, invece, proprio non mi è piaciuto granché è stato l’attacco della successiva “Canto di Dolore dell’Antica Dea Madre”, la cui ricerca di pathos mi è sembrata, per quanto suggestiva, davvero troppo forzata. Per mia fortuna, la canzone recupera subito terreno, distendendosi su ritmi contenuti e giocando con un bell’arpeggio che mi ha ricordato certi passaggi dei primi Ulver e che poi cede il passo a uno sviluppo altrettanto sentito, guadagnando corpo con lo scorrere dei secondi. Purtroppo, ancora una volta il coro di vocioni ispidi (secondo me, l’unica vera pecca dell’album) mi ha tolto un po’ di pathos, depotenziando una parte strumentale che, invece, risulta molto ben calibrata nel trasmettere la giusta intensità. “Consacrato all’Eterno” è un semplice intermezzo atmosferico di due minuti fatto di tempi scanditi e sapore rituale, mentre con la lunga “Safinim”, il singolo uscito un annetto fa, si torna a fare sul serio. La traccia si apre con un arpeggio tranquillo che poi si carica con l’entrata in scena delle tastiere. Le chitarre tornano a sferzare l’ascoltatore con rapide raffiche, inframmezzate da rallentamenti più trionfali. La spruzzata folk arriva quasi all’improvviso, aprendo all’intermezzo dilatato, dal sapore quasi bucolico, che in breve si ammanta di solennità. La canzone si interrompe di colpo, ripartendo poi con uno stacco piuttosto evidente la cui nuova carica ferina si stempera all’insegna di melodie più folkeggianti, alternando poi sferzanti sventagliate dal retrogusto black, squarci agresti ed epicità rombante. Chiude “Di Eroica Stirpe” la title track, introdotta da una melodia solenne che poi si screzia di rabbia chitarristica senza mai perdere la giusta rotta. Purtroppo, anche qui non posso non notare come il punto debole della traccia sia il suo comparto vocale, capace di affiancare passaggi intensi e della giusta consistenza ad altri non all’altezza. Ed è un peccato, perché la componente strumentale mantiene tutte le sue promesse, grazie alla tracotanza che traspira da ogni secondo e a una certa furente muscolarità, chiudendosi infine con una bella nota trionfale.
Ma quindi com’è questo “Di Eroica Stirpe”? È molto bello, ma. L’album scorre bene, trasmette la giusta intensità per tutta la sua durata e crea quasi sempre le atmosfere giuste, a cavallo tra enfasi e violenza, ma secondo me non è tutto oro ciò che luccica. Se dal punto di vista strumentale, infatti, l’album gode di ottime canzoni, viene penalizzato sul traguardo da una resa vocale a mio parere perfettibile, soprattutto nei momenti più carichi di pathos. Resta comunque un signor album, soprattutto se siete fanatici di un certo modo di intendere il pagan e il viking metal.