Recensione: Diabolica
Sesto album in 14 anni per i belgi heavy power metaller Iron Mask capitanati dal virtuoso chitarrista Dushan Petrossi, che come al solito spadroneggia in lungo e in largo nel corso dell’intera durata del disco.
Oggi è sempre più difficile realizzare (e, dunque, ascoltare) un album di heavy power metal che non tanto sappia dire qualcosa di nuovo o non eccessivamente derivativo, quanto suoni fresco e dinamico. Con questo Diabolica, come d’altra parte con ognuna delle proprie produzioni, gli Iron Mask non fanno eccezione, realizzando l’ennesimo clone splendidamente confezionato ma sostanzialmente inane.
I modelli di riferimento sono i soliti noti, tra i quali questa volta spiccano particolarmente i Rainbow di Sua Eccellenza Ritchie Blackmore, il di lui figlioccio Yngwie Malmsteen e la voce di Ronnie James Dio, simbolo stesso del genere, che Diego Valdez (sostituto di Mark Boals dietro il microfono) richiama notevolmente.
Come detto, il disco esce molto bene dalle casse, travolgendo l’ascoltatore con un suono pulito ma non distante e arricchito da arrangiamenti che sanno valorizzare al massimo i pezzi di Petrossi. Ma poco rimane dopo il primo, felice ascolto. Le canzoni, pur variegate nella propria struttura, non sanno uscire dal già sentito, decisamente troppo già sentito, inficiando dunque il risultato finale, che le premesse avrebbero consentito di sperare migliore.
La canzone d’apertura, I don’t Forget, I don’t Forgive, è il classico pezzo power metal, per una volta più debitore degli anni novanta che non della prima parte del decennio precedente. Molto Stratovarius.
Doctor Faust è un brano di quasi otto minuti, che forse rappresenta la vetta dell’album, grazie ad atmosfere saggiamente variegate che sono in grado di vivacizzare e sostanzialmente rinnovare le tante idee altrui qui riutilizzate dalla band.
Anche Galileo non è male, con quel suo mid-tempo che sa un po’ di una cavalcata maideniana (vagamente Alexander the Great) cantata da Dio; peccato che l’assolo di Petrossi faccia rimpiangere la finezza di Blackmore e la pulizia di Malmsteen.
Oliver Twist ha un ritornello carino, ma non si scosta troppo dalla qualità media del power metal contemporaneo, mentre March 666 ritorna alle velocità cadenzate di Galileo, fioriere di una epicità che questa volta, però, suona meno incisiva.
All for Metal pare un pezzo degli Helloween degli anni ottanta prodotto secondo gli standard attuali. In poche parole, dirò che la canzone non ha nessuna sostanza: ridatemi i due Keeper, per favore.
Invece, The Rebellion of Lucifer sembra una canzone epicheggiante di Ronnie James Dio. Pomposissima, nasconde sotto una massa di suoni un’ispirazione in vero poco valida e una conseguente scrittura troppo leggera e derivativa.
Con Diabolica è Malmsteen a salire sugli altari dei modelli da onorare. Ancora una volta, il risultato non è così male, ma ciò è più in virtù di un’ottima presentazione del prodotto che non della sua qualità intrinseca.
The First and the Last è il pezzo più hard rock del lotto. Pur non di qualità trascendentale, regala quattro minuti piacevoli. Senza infamia e senza lode.
Con Ararat si torna al mid-tempo a la Dio, ma il gioco è bello quando dura poco e a questa altezza del disco non se ne può più. Noiosa e impersonale.
Flying Fortress è un inutile pezzo power metal. Punto.
Cursed In The Devil’s Mill dura quasi quattordici minuti e condensa in sé tutto quanto Diabolica ha fino a quel punto offerto. Epicità cadenzata, melodie marcate, cavalcate e accelerazioni tipicamente power, assoli velocissimi e arpeggi un po’ neoclassici, il tutto mescolato senza troppa ragione. Il risultato è un calderone indistinto, nel quale si perdono idee che, da sole, non sarebbero state neppure male.
Nel tempo dell’ascolto vago e distratto, Diabolica può ritagliarsi il proprio quarto d’ora di fama, passibile di allungarsi anche di qualche ulteriore minuto presso l’ascoltatore alle prime armi, ignaro della storia del genere e dunque ricco di stupori virginali. I metallari di lungo corso e i giovani accorti potranno anche apprezzare nel breve, ma alla fine torneranno ad ascoltare Rising, Holy Diver o Marching Out, eterne testate d’angolo davanti alle quali un Diabolica qualsiasi impallidisce.