Recensione: Diamond Boy

Di Carlo Passa - 11 Agosto 2018 - 18:15
Diamond Boy
Etichetta:
Genere: Hard Rock 
Anno: 2018
Nazione:
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70

Non mi aspettavo molto dal nuovo disco degli Enuff Z’Nuff. Non solo sono passati quasi dieci anni dall’ultima produzione della band dell’Illinois, ma soprattutto in questo “Diamond Boy” manca per la prima volta la voce di Donnie Vie, che ha caratterizzato l’intera storia del gruppo. Ad assumersi l’onere di sostituire Vie è il suo eterno compagno di avventure fin dagli anni ottanta: Chip Z’Nuff, infatti, storico bassista della band, si prende la briga di accomodarsi dietro al microfono principale e di prestare la propria voce alle composizioni del 2018 degli Enuff Z’Nuff. La lineup è completata da Tory Stoffregen, ormai da tempo parte integrante del gruppo, e dall’ex Ultravox Tony Fennell alle chitarre, oltre che dal batterista Dan Hill.

Il risultato è un rock melodico e moderatamente originale, che si potrebbe andare a trovare cercando in un luogo immaginario tra gli ultimi Beatles e i primissimi Saigon Kick, oltre che ovviamente nei solchi di quel “Strength” che diede agli Enuff Z’Nuff una breve, seppur intensa, sensazione di successo poco meno che trent’anni fa.

La produzione di “Diamond Boy” può suonare straniante al primo ascolto, con una base ritmica in primo piano, la voce effettata e quasi lontana, e le chitarre dal suono più compatto e compresso di quanto ci si aspetterebbe da una band che, alla fine, fu annoverata nel calderone hair metal più per contingenze temporali (e look conseguente) che per caratteristiche proprie del genere.

Non mancano i pezzi belli, ben valorizzati dalla voce, certo stentorea ma non per questo noiosa, di Chip Z’Nuff. Tra questi va certamente inclusa “We’re All The Same”, che è forse il momento più smaccatamente retro di “Diamond Boy”. Egualmente, “Fire & Ice” e “Where Did You Go” fanno una bella figura, rivisitando i Beatles del periodo “Let It Be”, senza pretesa alcuna di confronto. Sulla stessa linea è “Down On Luck”, giocata intorno a quel suono un po’ “Come Together” che caratterizza l’intero disco.

Nonostante il titolo, “Metalheart” non scarta molto da quanto proposto dalle altre tracce, forse accentuando solo la componente party, che alla fine risulta un poco castrata dalla produzione qui davvero troppo caustica.

“Love Is On The Line” è la classica ballad in sei ottavi che strizza l’occhio a John Lennon: piacevole, soprattutto per il bell’assolo, ma certamente niente di trascendentale. Se la dinamica e divertente “Faith, Hope & Luv” è trascurabile, la successiva “Dopesick” è un gran bel pezzo, un mid-tempo non banale capace di arrivare benissimo a un ritornello melanconico che, qui sì, la produzione riesce ottimamente a valorizzare nel suo andamento sporco, e piacevolmente tale.

Infine, “Imaginary Man” è un altro momento beatlesiano, in sostanza inane ma neppure disdicevole.

Insomma, gli Enuff Z’Nuff del 2018, pur stravolti nella line-up e privati della propria voce storica, non fanno che portare avanti un personale, coerente, progetto musicale, che suonava rétro già nel 1990 e oggi non risulta tanto diverso da allora. Non è più tempo di ospitate al David Letterman Show, di colonne sonore (Mamma, ho riperso l’aereo, 1992) e di video in alta rotazione su MTV, ma forse c’è ancora spazio per gli Enuff Z’Nuff, se non altro per quell’effetto nostalgia che li caratterizza fin dagli esordi. “Diamond Boy” si ascolta volentieri. Se già facevate air guitar negli anni d’oro della band, vi regalerà qualche emozione; se eravate in fasce o nei pensieri dei vostri genitori, vi offrirà la possibilità di osservare la musica da una ideale piattaforma su cui forse non siete mai saliti.

 

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