Recensione: Diamond In The Firepit
Uno, due e tre: 2006, 2008, 2014.
Ci hanno messo parecchio questa volta, Pekka Ansio Henio, Emppu Vuorinen ed i loro compari, per dare un seguito all’entusiasmante incipit di carriera inaugurato con i primi due album, tanto da lasciar quasi presagire un definitivo tramonto per quella che era stata una delle esperienze più piacevoli e gratificanti dell’ultimo decennio melodico.
“False Metal” e “Heart Full Of Fire”, infatti, si erano rivelate release al limite della perfezione pur nella loro evidente ruffianeria e nel loro voler assumere, a tutti i costi, i canoni più consolidati della tradizione rock di stampo eighties, interamente giocata su ampie tastiere, cori da airplay ed armonie tanto piene quanto facili da assorbire.
La concorrenza, gl’impegni individuali ed un music market sempre più affollato, sembravano davvero non lasciare molto spazio per i Brother Firetribe, side project mai divenuto band reale a tutti gli effetti.
Bello del mondo della musica: i ritorni, sono sempre possibili.
Tant’è che, pure in uno scenario come quello del melodic rock nordico – mutato in un complesso ancora più ipertrofico rispetto a quanto non fosse otto anni fa – lo spazio per il talento e per una buona proposta pare esserci sempre. Soprattutto poi, quando si manifesta in sottofondo un biglietto da visita costituito da una coppia di uscite precedenti di altissimo livello…
Passato l’effetto sorpresa, destato dal primo capitolo e rinvigorito dall’illustre successore, non potrebbe dunque apparire molto coerente il presagire qualcosa di troppo dissimile nella forma e nella sostanza per il terzo tassello della serie, simbolicamente riconosciuto da sempre come quello di conferma o “maturità”.
Ed in effetti, di conferme con questo “Diamond In The Firepit” siamo proprio a discorrere. Magari tralasciando frasi roboanti – diventate negli anni un pelo meno efficaci – come il motto che recitava “qualcosa di grande, insolito ed inascoltato da tempo” ma, in ogni modo, con ancora la concreta e suggestiva possibilità di apprezzare un distillato di classe melodica, al solito, capace di coniugare con brillantezza AOR, pomp Rock ed il grande immaginario dell’arena rock ottantiana.
Coordinate stilistiche e tratti caratteriali della proposta che si mantengono inalterati per la terza volta consecutiva, insomma. E ci verrebbe spontaneamente da domandare: perché no, visti i risultati comunque ottimi?
Che l’atmosfera in cui è imbevuto “Diamond In The Firepit”, si alimenti come di consueto dalle immagini carpite alla miscela di Van Halen, Treat, Europe e Danger Danger che era degli esordi, appare evidente sin dalle prime note “tastierose” della veloce “Love’s Not Enough”, up-tempo che accoppia chitarra e keys all’inseguimento del consueto coro ultra orecchiabile.
La struttura dei brani costruiti dai “Tribesters”, si manifesta sempre ammantata – quasi protetta – da quella ingenua freschezza e vitalità che sono patrimonio peculiare di chi studia la propria musica con l’intento specifico di garantire vibrazioni piacevoli ed una sana scarica di energia positiva. Il sole e la voglia di vivere sono un’idea quasi bruciante nella linea di “Far Away From Love” e del primo singolo “For Better Or For Worse”, AOR edulcorato, morbido, ottantiano nel senso più rigido e stretto del termine.
Sensazioni ovattate e quasi oniriche che si rincorrono in “Desperately”, eccellente slow che denota notevole cura per gli arrangiamenti e tradisce qualche influenza Survivoriana, avvolgendosi attorno ad una melodia che manda a memoria ambientazioni costiere e skyline notturni.
La percezione del caldo vento estivo arriva però con particolare forza nel terzetto di tracce successive, “Edge Of Forever”, “Hangin’ By A Thread” e “Trail Of Tears”. L’idea di “anni ottanta” è, in questi casi, una sorta di mantra che si ripete all’infinito, perpetuandosi sulla scia di armonie che toccano da vicino il versante più americano del genere, scomodando paragoni illustri oltre che con Survivor, anche con Signal, Red Dawn e Journey, in un revival di suoni rinfrancati e resi scintillanti dalle moderne tecniche di produzione.
Più contemporanee ma sempre intrise di ampi spazi orecchiabili, le altrettanto solari “Winner Takes It All” (nulla a che vedere con gli Abba) – passaggio che mette in mostra l’ennesimo lavoro di fino in sede di arrangiamento – e la nordica “Tired Of Dreaming”, episodio questa volta più devoto alle sonorità tipiche dei celestiali Treat.
Il finale, sempre all’insegna dell’easy listening più acceso, regala ancora qualche bel fuoco d’artificio con l’urgente ed ingenua “Reality Bites”, seguita dalla conclusiva “Close To The Bone”, brano che più di ogni altro ha nel suono di tastiera e nel giro melodico le tracce degli Europe che furono. Quelli di “The Final Countdown”, per intenderci…
Anche nel 2014, Pekka, Emppu ed i loro incrollabili compagni (sempre la stessa line up sin dagli esordi) si dimostrano costituiti esattamente della stessa foggia di cui ci avevano fatti invaghire nel 2006.
Vibranti e gioiosi, magari tamarri e pacchiani, ma sempre tanto, tanto divertenti. Capaci soprattutto, di veicolare un feeling positivo, radioso, ricco di sole e di voglia di vivere come si era soliti ascoltare giusto una trentina d’anni fa.
Gruppi come H.E.A.T, Reckless Love, Vega e proprio Brother Firetribe, si potrebbero forse definire band per inguaribili romantici fuori dal tempo, prigionieri di un’epoca ormai passata.
Considerato tuttavia, l’alto indice di gradimento cui il genere sta dimostrando di andare sempre più incontro (festival e live show dedicati agli eroi di settore, sono tra i più seguiti ed affollati), non siamo poi così tanto sicuri nel definire il suono dei Tribesters e dei loro “cuginetti” nordici (al pari di chi AOR e Melodic Rock li suona da altre parti del pianeta), così tanto declinante, di “nicchia” o destinato a fasce di pubblico limitate.
Il sole prima o poi tornerà a splendere. E band come queste, saranno nuovamente la colonna sonora di giornate piene di luce…
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