Recensione: Die for Us
I Werewolves, veri burloni durante le interviste, diventano improvvisamente seri quando si tratta di parlare di album. Dieci, per la precisione, che si sono posti come obiettivo da raggiungere in altrettanti anni. Al momento, con l’ultimogenito “Die for Us”, sono a metà del cammino. Un traguardo che, va da sé, sia estremamente arduo da raggiungere.
Il che non significa assolutamente che quelli sfornati siano dischi tutti uguali fra loro, e che quelli che verranno subiranno la stessa sorte. No, con un atteggiamento del tutto professionale il combo australiano dà alle stampe prodotti diversi gli uni dagli altri, ovviamente partendo da un sound che, questo, sì, più o meno resta invariato a passare del tempo. Il che è logico giacché si discute dello stile unico e personale del combo medesimo.
E, a proposito di sound, occorre rimarcare immediatamente che trattasi di cosa spaventosamente mostruosa. Brutale, violentissimo, rapidissimo. In pochi aggettivi devastante, monumentale (‘Beaten Back to Life’… annichilente!). Tant’è che a livello di metal estremo professionale vengono in mente ben poche similitudini. Fractal Generator, Anaal Nathrakh e Myrkskog sono fra i rari riscontri alla spaventosa, agghiacciante aggressione sonora perpetrata dai Nostri (‘My Hate Is Strong’).
Tutto è all’estrema vigoria, la quale assume valori che divergono dalla normalità per generare la splendida trance da hyper-speed. Uno speciale stato mentale che proietta in se stesso visioni lisergiche. Resistendo alla stordimento per troppa assunzione di watt, la mente genera allucinazioni che dipendono, come soggetto, dal mood del disco che si sta ascoltando. Nel caso di “Die for Us” non c’è una particolare componente emotiva se non l’azione di macellare quanti più timpani possibili. Visioni crude, anatomiche, le quali vengono emesse a profusione da un disco la cui potenza è similare a quella di una centrale termonucleare.
È chiaro che la prima responsabile di uno sfacelo simile sia la sezione ritmica. David Haley, in primis, manovra con disinvoltura assoluta il proprio strumento, passando da pesantissimi slow-tempo (‘Under a Urinal Moon’) a sfuriate totalmente devastanti di blast-beats, resi anch’essi con la massima prestanza possibile da un essere umano (‘The Company Wolves’). Un artista multiforme, capace di sondare a fondo tutte le varianti e possibilità di spingere alla velocità della luce “Die for Us” verso mondi sconosciuti.
E Sam Bean? Eccolo: mastermind del combo di Melbourne, assomma a sé sia la responsabilità delle linee vocali, sia quella del basso. Il tono, benché straziato dal growling, è per la maggior parte pulito, stentoreo, possente, così come i primi vocalist in ambito death, antecedentemente all’avvento del citato growling. Che, come curiosa nota di costume, trova soddisfazione nel rombo del basso.
Quindi, a questo punto ci si chiede come faccia un chitarrista solo, Matt Wilcock, a costruire nota per nota, come fossero pietre, un pazzesco muro di suono. Certo, in sala di registrazione ci possono essere anzi ci sono le sovrapposizioni dello strumento stesso, tuttavia la varietà della sezione ritmica, da sola, conduce a una forza in grado di spappolare un cranio, umano che sia.
Chi pensava a un LP elaborato solo e soltanto per mantenere la promessa iniziale non può che restare deluso, poiché le canzoni sono tutto, fuorché uguali. Anzi, sono ben differenziale le une dalle altre e, così come sono inserite nel platter, danno un buon ritmo alla sequenza compositiva. Questa tutt’altro che mediocre, anzi.
Alla fine dei conti “Die for Us” è sopportabile solo e soltanto dagli appassionati dei su citati act. Il resto lasci perdere, poiché verrebbe travolto come uno tsunami dalla distruzione assoluta attuata dai Werewolves.
Daniele “dani66” D’Adamo