Recensione: Digital Race
Dieci anni di milizia attiva finalmente premiati dal debutto su full length. Questo rappresenta Digital Race dei catalani Redshark, attivi dal 2012 e con due Ep alle spalle, rispettivamente Rain Of Destruction del 2016 ed Evil Realm del 2019. Dei fondatori, nell’attuale formazione, milita il solo Philip Graves, al secolo Pablo Jodra Brau (qui sua intervista), chitarrista che in passato si occupò anche delle parti vocali e del basso.
Il resto della formazione schiera Paul Lanerk (voce), Javi Bono (chitarra), Chris Carrest (basso) e Mark Striker (batteria), sebbene quest’ultimo abbia lasciato la band in febbraio.
Digital Race vede la luce per il tramite dell’etichetta francese Listenable Records e si accompagna a un libretto di dodici pagine con tutti i testi, le note tecniche di rito e varie foto della band, sia per singolo componente che d’insieme.
L’approdo al full length da parte del combo di stanza a Barcellona determina un netto salto di qualità e di suoni nei confronti del precedente Ep, particolarità che lo pone allo stesso livello delle varie uscite legate all’HM in your face della nuova ondata, ove la “botta” deve essere chiara, forte e assoluta per poter competere.
E gli spagnoli ci danno dentro, alla grandissima:
Prendete in dosi paritetiche Judas Priest, Metal Church, Annihilator, Exciter, Muro, Saxon, Primal Fear, Vicious Rumors e Agent Steel.
Mescolate per bene.
Lasciate macerare per qualche mese.
Incanalate il prodotto lungo un dischetto ottico, in dieci porzioni.
Quello che otterrete è Digital Race, una mazzata di fottuto heavy speed metal dall’alto potenziale.
Al netto di qualche colpo a vuoto (“Digital Race”, “Burning Angels”) il resto consta di bordate in pieno petto, a partire da “The Drill To State”, figlia degli Exciter e degli Agent Steel più bastardi e impreziosita dall’ugola di Paul Lanerk, all’anagrafe Pau Correas Corretja, un autentico cavallo di razza cresciuto nella terra dei tori.
Le legnate si susseguono senza tregua, lungo l’ascolto, fra cavalcatone iper classiche e possenti quali “Never Too Late” e un paio di brani che si discostano leggermente dal solco primario, come la ballatona “Pallid Hands”, unico momento di respiro di Digital, con gli iberici molto vicini ai nostri Axton per trasporto e interpretazione e “Arrival”, che si apre con atmosfere alla Den Harrow anni ‘80 (si, avete letto bene!) per poi deflagrare in una randellata di HM frontale sullo stile dei Judas Priest di Leather Rebel.
Digital Race: dieci schegge di metallo incandescente che “van giù dritte“.
Ignoranza HM distillata con perizia, gusto, credo e velocità.
Autentica manna, come sempre, per tutti i die hard fan del genere.
Nessun fronzolo, solo Acciaio in mezzo ai denti.
Quello che ci vuole.
Stefano “Steven Rich” Ricetti