Recensione: Dirty Boulevard

Di Eugenio De Gattis - 23 Marzo 2016 - 10:30

L’unica novità offerta negli ultimi tempi dalla scena Hard Rock mondiale ed accolta positivamente pure da chi, non amando affatto le “novità”, alla musica chiede solo certezze, è rappresentata dal ritorno in voga dei cosiddetti supergruppi. Ovvero, Chickenfoot, volendo (per quelli dai gusti più elastici) Them Crooked Vultures, ma soprattutto Black Country Communion. Ecco, nel suo piccolo, anche l’Italia ha un supergruppo, ugualmente vintage, ma in versione Classic Rock: Fabio Fabbri (apprezzato session man) alla chitarra solista; Jacopo Meille (frontman dei leggendari Tygers of Pan Tang) voce e chitarra acustica; Richard Ursillo (già Sensation’s Fix, Sheriff e Campo di Marte) al basso; Alessandro “Nuto” Nutini e Federico Pacini (della Bandabardò) rispettivamente alla batteria ed alle tastiere. Meglio noti come General Stratocuster and the Marshals e giunti, ormai, al terzo album in studio, dopo il debutto omonimo del 2011 ed il successivo “Double Trouble”.

Per discutere di questa band e comprenderne la “mission”, comunque, basterebbe soffermarsi sul nome stesso: General Stratocuster and the Marshals. Geniale nella sua semplicità e più che mai appropriato, con il riferimento agli iconici arnesi del mestiere e la suggestione di una terra selvaggia tutta da esplorare. Una di quelle trovate in grado di far esclamare: “cavolo, vorrei averci pensato io!” Ed in qualche modo, è sempre il nome a tradirne le origini. All’ascolto potrebbero passare sul serio per un gruppo a stelle e strisce, ma in realtà per degli statunitensi l’idea apparirebbe un po’ al di fuori del politicamente corretto. Come il caso di certi iPhone non originali, che per un eccesso di zelo recano la sigla “Made in U.S.A.” (mentre quelli autentici sono assemblati in Cina). Una volta accesa, però, una copia resta tale. Qui, invece, il bello è che premendo il tasto play emerge anche la sostanza. E’ vero, il Generale ed i Marescialli (o Sceriffi che dir si voglia) sembrano nati per suonare dal vivo ed esaltarsi con quei brividi che solo la dimensione live è in grado di regalare. Ma guai a ritenerli una cover band. Alla base del percorso c’è ancor prima la produzione di nuova musica. E la qualità del risultato ne è la conferma.

La vita on the road è semmai l’inesauribile fonte d’ispirazione alla quale attingere. Insomma un mezzo, ma non il fine. Come per il Blues “Going Down to Velvet Underground”, creato di getto a margine di un concerto. Anzi, l’intero disco è dedicato alla strada. Luogo in cui tutto è sfuggente e dove anche le relazioni sono destinate a durare poco, tipo il make-up della ragazza in copertina. E non conta che si viva fra i vicoli metropolitani cantati da Lou Reed, sulle highway polverose viste in “Easy Rider”, o che si tratti piuttosto del viaggio in senso metaforico descritto da Kerouac nella bibbia della Beat Generation. Un credo tuttora affascinante e che in parte è possibile riscontrare nel testo di “A Matter of Guts and Pride”. Brano che manifesta il disincanto tipico del rocker e che fa idealmente da contraltare al lato più romantico messo in mostra, secondo tradizione, nella ballad “Take me with You”.

Ma questo lavoro, il primo per l’etichetta Black Candy, offre ancora altri livelli di lettura. Lo stesso “Dirty Boulevard”, in effetti, somiglia ad una passeggiata simbolica lungo la linea evolutiva del Rock. Una summa che ne raccoglie i momenti cruciali. Una traversata sull’asse anglo-americano in quasi cinquant’anni di musica. Basta seguire il filo e rimettere in ordine le tracce. “All my Pride” è un pezzo Rock and Roll, nel senso stretto del termine, ed omaggia senza filtri i padri del genere: Chuck Berry e tutti i protagonisti del Million Dollar Quartet (la celebre jam considerata un modello sperimentale di supergruppo). C’è il tributo sincero all’artista di strada per eccellenza, Bob Dylan, in “Thank You Bob” (brano composto pensando anche alla sua esperienza nei Traveling Wilburys e che in verità ha un testo in stile Dylan, musiche à la Neil Young e per metà sembra cantato da Mark Knopfler). Si può cogliere l’eleganza dei Beatles in “Staring at my Face” e la grinta dei Rolling Stones in “Time to Tell”. E poi “Shock to the System”, che si rifà al periodo d’oro del British Blues, con la comparsa dei primi guitar hero (Jeff Beck, Eric Clapton) ed ovviamente dei relativi supergruppi (Yardbirds, Blues Breakers, ecc). Intanto avviene la definitiva consacrazione del Rock, da fenomeno generazionale a linguaggio di massa, e “Piece of Mind” è un Country-Folk che sa molto di Summer of Love. “Hold Back the Tears” ha invece l’atteggiamento ammiccante ed ormai consapevole dei Faces di Rod Stewart. In “Little Sparrow” fanno capolino direttamente i Led Zeppelin di “When the Leeve Breaks” (già cover di un classico Delta Blues) a ricordare nuovamente che, ad essere precisi, l’Hard Rock dovrebbe chiamarsi Hard Blues. “Built to Last” è, infine, un esempio di quella perfezione sonora raggiunta a ridosso degli anni ’80. L’anello di congiunzione fra Rolling Stones e AC/DC. L’apice dell’album, in cui il gruppo si esprime al massimo: riff essenziale ed irresistibile, voce graffiante, ricami di tastiere, basso martellante e cowbell in abbondanza (da poter accontentare pure il Christopher Walken del Saturday Night Live).

In conclusione, tornando all’analisi, è forse superfluo evidenziare come ogni elemento ruoti in totale sincronia attorno alla chitarra del Generale Stratocuster, ma va menzionata in particolare la prova al microfono del fido Jack Marshal, che (senza nulla togliere agli altri) pare proprio in aria di promozione al grado superiore per meriti acquisiti sul campo. Tuttavia, si sa, la strada per il successo è lunga, se scegli il Rock and Roll… ed a volte è già dura tenersi a distanza dal viale del tramonto. Qualche scossone in più, ad esempio, gioverebbe alla causa. Anche se, per fortuna, “Dirty Boulevard” non è una banale operazione revival. Questa è la musica che in buona misura hanno vissuto, che di certo li ha formati e che semplicemente preferiscono. Un’occasione gradita per godersi un bel viaggio o magari ripassare un po’ di storia. In fondo, chiudendo gli occhi, si può quasi immaginare di essere lì… mentre The Killer infiamma il pianoforte. Quando Dylan imbraccia la chitarra elettrica (una Stratocaster, ovviamente). Fuori dalla stanza d’albergo che ospita i Beatles e Peter Fonda. Nella metropolitana di Londra davanti alla scritta “Clapton is God”. Poi nel fango di Woodstock e, purtroppo, all’Altamont con gli Hells Angels. La fine di un sogno, cui però segue sempre l’inizio di una nuova era.

 

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