Recensione: Dirty Surfaces

Di Daniele D'Adamo - 19 Novembre 2007 - 0:00
Dirty Surfaces
Band: Risk
Etichetta:
Genere:
Anno: 1990
Nazione:
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72

Dopo i primi due full-length The Daily Horror News (1988, Steamhammer/SPV) ed Hell’s Animals (1989, Steamhammer/SPV), è la volta, per i teutonci Risk, del terzo album Dirty Surfaces. Album che viene dato alle stampe con regolarità cronometrica, nel 1990, con la formazione identica a quella di Hell’s Animals: Heinrich Mikus (Vocals/Guitars), Roman Keymer (Guitars, also Angel Dust, Crows, Centaur), Peter Dell (Bass, also Faithful Breath) e Jürgen Düsterloh (Drums, also Faithful Breath) e Thilo Herrmann (Guitars, also Faithful Breath, Grave Digger, Holy Moses e Running Wild).

Con il loro terzo lavoro in studio, il combo tedesco, partito da un atipico Power assai dinamico e sciolto, prosegue il proprio avvicinamento al confine che separa il Power stesso dal Thrash; senza però mai superarlo, se non lambirlo in alcuni momenti contenuti in qualche canzone dell’album.

A parere di chi scrive, questa indecisione se rimanere completamente “dentro” il Power, oppure se fare il passo decisivo verso il Thrash, spiega perché i Risk, pur avendo composto e realizzato album di più che buona fattura, ed avendo avuto una line-up stabile e dotata di elementi di esperienza e di spessore tecnico/artistico di livello internazionale, alla fine, siano stati, durante la carriera attiva, non più che una band di seconda “fascia”, nella scena Metal, e siano finiti ora nel “dimenticatoio”.

Rispetto ai due album precedenti, la produzione dell’album migliora leggermente, riuscendo a dare al suono prodotto dal gruppo, se non altro, la minima “dose” di potenza che il gruppo stesso necessita e merita in virtù del genere proposto che, per quanto sopra, rimane un Power metal relativamente poco melodico, dalle classica struttura fondazionale di tipo teutonico.

Per quanto riguarda le canzoni, a far da contrappeso ad alcuni brani decisamente riusciti, ci sono brani invece che denotano una certa stanchezza in fase di songwriting; condizione, questa, presumibilmente imputabile al fatto che il gruppo ha fatto uscire tre full-leght in altrettanti anni, forse oppressi da un contratto troppo pesante per i mezzi (compositivi) del gruppo stesso.

Dopo la breve e coinvolgente intro, Beach Panic, Pyromanic Man parte di gran carriera su ritmi semi-thrash, serrati, ma dai buoni riff di chitarra, in quanto vari e movimentati. La canzone si può definire riuscita, in quanto sono presenti le caratteristiche peculiari che hanno così ben definito nel passato il suono della band, ovvero lo specifico senso di dinamismo e velocità, con rapidi e continui cambi di tonalità, soprattutto nelle linee di basso di Peter Dell.
Anche la successiva Legend Of The Kings si mantiene su livelli più che buoni, con il suo groove pieno e deciso, dall’andamento decisamente Power. Come del resto Paralysed, dalle tinte buie ed oscure, molto melodiche, dall’incedere dinamico e svelto, dal buon chorus, allineato sul tono della canzone stessa. Non male la title-track, Dirty Surfaces, dal ritornello vivace, anche se riottoso, naturale e di facile memorizzazione

Brani un po’ meno riusciti appaiono Warchild, melodica e da buon intro di chitarra acustica, ma decisamente poco originale nei contenuti musicali anche se, è bene ribadirlo, il discorso è relativo ad uno standard artistico comunque di tutto rispetto. Like A Roller-Coaster è un’altra canzone tutto sommato un po’ anonima, anche se appare buono e riuscito il refrain, in quanto nobilitata solo dalla parte finale da un originale groove jazzato. Anche Blood Is Red, episodio lento e massiccio, alla lunga risulta un po’ noioso, proprio per la sua eccessiva pesantezza. A chiudere il gruppo delle canzoni meno riuscite, Iron Wheels, che chiude anche l’album, decisamente fiacca e poco potente.

Letter From Beyond è un episodio decisamente atipico, che inizia con un arpeggio di chitarra che sembra proveniente da mondi lontani, seguita da una strofa altrettanto atipica ma coinvolgente, dagli echi provenienti da un rock psichedelico d’altri tempi. Anche quando il ritmo si fa più serrato, non scompare l’alone di mistero che la visionarietà del brano riesce a materializzare.
Analogamente atipica è Burn My Heart, dal groove decisamente Heavy, quindi dalle linee melodiche pronunciate, dai riff non particolarmente compressi, dal ritmo vivace ma non veloce, dal cantato impostato in maniera classica, così come gli assoli di chitarra, armonici ed orecchiabili.

Quindi un album che sicuramente mantiene uno standard artistico qualitativamente su livelli ben oltre la sufficienza ma che, penalizzato al solito da una produzione fiacca e troppo dimessa per il genere proposto dal gruppo, presenta una disomogeneità troppo evidente una canzone e l’altra, probabile segno di insicurezza sulla direzione musicale da intraprendere e poi da seguire con decisione.

Daniele D’Adamo

Tracklist:
1.Beach Panic
2.Pyromanic Man
3.Legend Of The Kings
4.Warchild
5.Paralysed
6.Like A Roller-Coaster
7.Blood Is Red
8.Letter From Beyond
9.Burn My Heart
10.Iron Wheels
11.Dirty Surfaces

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