Recensione: Disharmonic Revelations
Uno dei comandamenti fondamentali che ogni metallaro deve imparare a seguire è ‘non giudicare mai un disco dalla sua copertina’. Immaginate un adolescente, da poco iniziato alla gioie del Metal, che gironzola per un mercatino delle pulci dopo aver finito i giga nel cellulare. Immaginatelo spinto dalla curiosità di provare ad acquistare una giurassica copia fisica di CD, rigorosamente usata, con la consapevolezza di potersi fidare solo della sua vista causa indisponibilità della Rete. Seguitelo con la fantasia mentre decide di acquistare “Saint Anger” dei Metallica perché la copertina lo intriga e di lasciare sulla bancarella il bel “Fire Down Under” dei Riot perché la copertina…insomma, mi limiterò a dire che la ricordiamo tutti con sufficiente precisione. Più che una fantasia si tratterebbe di un incubo bello e buono, ed è un tipo di esperienza che oltretutto ricordo benissimo: fortunatamente mi è successo di rado, ma non mi stupirei se a qualche Lettore fra i più anzianotti fosse capitata ogni tanto una simile disgrazia…e poi si sa, il lupo perde il pelo ma non il vizio. Tuttora infatti, quando mi trovo a scegliere qualche novità da recensire, non resisto alla tentazione di farmi attirare dall’artwork. Sarà forse il fascino verso l’ignoto a guidarmi, o semplicemente il desiderio di riprovare emozioni antiche…fatto sta che la copertina di “Disharmonic Revelations” dei tedeschi Warpath in qualche modo mi ha attirato. Apparentemente non c’è nulla che sia particolarmente degno di nota: qualche simbolo, il titolo dell’album e la mascotte del gruppo ritratta in una versione riveduta e corretta. A ben guardare, però, il consueto teschio zannuto, solitamente sorretto da una croce somigliante a una rosa dei venti, stavolta viene sostenuto da un incrocio di frecce che puntano verso l’esterno in otto direzioni diverse: trattasi del noto Simbolo del Caos, comparso nelle storie di Michael Moorcock e spesso ripreso in altre manifestazioni del Fantastico come, tanto per dirne una, il gioco di miniature Warhammer. Il Simbolo del Caos, adattato all’iconografia dei Warpath, non poteva essere una scelta migliore per anticipare buona parte del contenuto di “Disharmonic Revelations”, ed ecco il motivo per cui la copertina mi ha colpito: il parallelismo tra il furioso caos sonoro prodotto dai Warpath e il caotico periodo storico in cui ci troviamo, tra pandemie e spettri di guerre mondiali nucleari, è più che calzante. Non che il caos sia una novità per questa band, anzi: la storia dei Warpath sembra proprio avere avuto come unico comune denominatore il caos, sia nelle scelte musicali che nelle vicissitudini della formazione.
Il primo full-length dei Nostri, “When War Begins…Truth Disappears”, esce nel 1992; ci troviamo in un periodo in cui il Thrash Metal ‘classico’ sta poco per volta lasciando spazio a rielaborazioni più o meno efficaci, in cui la violenza sonora in qualche modo rimane ma i ritmi parossistici e gli affilati riff di chitarra di qualche anno prima si sentono sempre meno. In poche parole, nel 1990 o giù di lì, si inizia a parlare sempre più di Groove Metal e sempre meno di Thrash: è questo il nuovissimo brodo di coltura in cui trovano spazio i Warpath, che pubblicano “When War Begins…Truth Disappears” due anni dopo i Pantera di “Cowboys From Hell” e un anno prima dei Sepultura di “Chaos A.D.”. In questo debutto come quintetto le sonorità dipendono ancora in certa misura dal decennio precedente, addirittura con qualche influenza Heavy che stranamente non guasta, ma è con il secondo album, “Massive”, che i Warpath mostrano di aver saltato completamente la staccionata, anche grazie a un radicale cambio nella formazione. I chitarristi del debutto vengono lasciati a casa e le asce vengono ridotte da due a una: i Warpath divengono così un quartetto. Siamo tra Giugno e Luglio del 1993 e “Massive” può essere annoverato senza dubbio nella nuova corrente Groove, o post-Thrash che dir si voglia: i Warpath sembrano addirittura anticipare di qualche mese certe scelte del sopracitato “Chaos A.D.”. La voce del cantante Dirk “Digger” Weiss qui è molto vicina a quella di Max Cavalera, così da far funzionare il gioco di rimandi in entrambe le direzioni, ma stupisce comunque trovare elementi sonori che ritroveremo pochi mesi dopo proprio nel ‘controverso capolavoro’ dei Sepultura. La questione è che i Sepultura riempiono il loro disco di personalità e inventiva, mantenendo un invidiabile equilibrio tra innovazione e tradizione, mentre i Warpath sembrano annaspare alla ricerca di sonorità che trovano faticosamente il loro posto tra i solchi del disco e nelle orecchie dell’ascoltatore. Talvolta le chitarre si avvicinano a certi suoni dei Type O Negative, che nel 1992 pubblicavano “The Origin Of The Feces”, e non a caso troviamo in “Massive” la cover di “Race War” dei Carnivore, gruppo fondato dal compianto Pete Steele prima di dare vita ai Type O Negative; con i Carnivore il Thrash e l’Hardcore si fondevano profondamente, e i Warpath mostreranno in futuro di aver imparato la lezione. Indubbiamente molto fertili, i Nostri daranno alle stampe nel 1994 quello che probabilmente è ancora il loro miglior lavoro: “Against Everyone”. Il disco riesce ad essere contemporaneamente devastante e oppressivo, passando continuamente da pachidermici ritmi in salsa Doom a indiavolate sfuriate Thrash, completando il tutto con frequenti virate verso l’Hardcore. Pur trovandoci di fronte ad una bella minestra di elementi a volte poco eterogenei, la sensazione di brutalità sprigionata dall’insieme funge bene da collante, rendendo il tutto piuttosto godibile. Di sicuro la stabilità nella formazione ha dato un grosso aiuto: mazzate sonore come “Paranoia” rimangono in mente, ed è grazie a brani come questo che si può capire da dove abbia preso le mosse l’attuale “Disharmonic Revelations”.
Proprio quando le cose sembravano andare per il verso giusto sopraggiunge un’altra rivoluzione nella line-up: questa volta a mollare è Weiss, che lascia il posto ad Arnie, cantante ora non più tra noi. La nuova voce non si discosta molto da quella del predecessore, tranne che per una minor espressività e una maggior tendenza verso il growl, e in generale “Kill Your Enemy”, uscito nel 1996, non brilla per inventiva, con intrecci di chitarra e batteria piuttosto banali che pescano a piene mani dai capolavori dei Pantera usciti negli anni precedenti. L’album si attesta su un livello qualitativo piuttosto basso, e non stupisce il fatto che dopo questo flop la band abbia deciso di abbandonare le scene per 21 anni. Con “Bullets For a Desert Session”, datato 2017, la riapertura delle ostilità condotte dai Warpath riprende con una line up completamente rinnovata e un cantante ritrovato: torna Dirk ‘Digger’ Weiss, che mette da parte il tono à la Max Cavalera per proporre un timbro gutturale che si ferma a un paio di passi dal growl, mentre lo stile musicale sembra aver abbandonato in gran parte il Groove degli anni ’90. I Warpath del 2017 propongono canzoni più ‘quadrate’ e meno caotiche rispetto ad “Against Everyone”, con una struttura dei brani generalmente più regolare, ma la vera differenza è un’altra: il Thrash dei Warpath, se possibile, si appesantisce ulteriormente rispetto ai lavori precedenti. Se non fosse per “Unseen Enemy” e soprattutto “No One Can Kill Us” le sonorità Hardcore sarebbero completamente assenti da “Bullets For a Desert Session”, mentre la voce e il suono delle chitarre si incupiscono a un livello tale che francamente non stonerebbero in un disco Death Metal. In questo lavoro i ritmi lentissimi e oppressivi incontrati nei dischi precedenti vengono sfruttati con minor frequenza, e mai come interruzione o variazione in una medesima canzone. I Warpath preferiscono mantenere ritmi rocciosi in mid-tempo leggermente più dinamici rispetto ai rallentamenti funerei presentati nei lavori anni ’90, ma qualunque scelta venga fatta il risultato è ancora una volta deludente: “Bullets For a Desert Session” non riesce ad elevarsi oltre la mediocrità. Che fare a questo punto? Weiss & Co. ci riprovano nel 2018 con “Filthy Bastard Culture”, ripartendo ancora una volta pressoché da zero: si sente un ritorno a sonorità Hardcore e il pesante Thrash di “Bullets For a Desert Session” si fa più tagliente e in qualche modo più melodico, con una ripresa di certi echi Groove che testimoniano l’eterno desiderio di rinnovamento della band…o magari le difficoltà nel trovare una strada sicura da percorrere. “Filthy Bastard Culture”, che per inciso si fa ascoltare anche abbastanza volentieri, non rappresenta ancora la svolta tanto attesa e cercata dai Warpath: le incertezze faticano a chiarirsi e la nebbia di guerra scende ancora una volta, rispedendo nell’oblio per altri 4 anni i Warpath.
Questa lunga parentesi dedicata alla storia dei Nostri ci può aiutare a comprendere meglio il nuovo “Disharmonic Revelations”. L’album esce dopo un ennesimo cambio di formazione: il chitarrista Flint ’Razorhead’ viene sostituito da Claudio Illanes e Roman Spinka, riportando così a 5 il numero di musicisti coinvolti e portando nuova linfa compositiva all’interno del gruppo. Diciamolo subito, a scanso di equivoci: “Disharmonic Revelations” è il miglior lavoro della’ seconda giovinezza’ di questa band. “Bullets For a Desert Session” e “Filthy Bastard Culture”, impantanati a causa di una varietà stilistica un po’ limitata, non sono assolutamente paragonabili a “Disharmonic Revelations”. Nel nuovo disco il gruppo sembra aver scelto di ripercorrere il sentiero abbandonato dopo il cattivissimo “Against Everyone”, album che si innalzava rispetto a gli altri lavori grazie alla capacità di proporre soluzioni originali in un contesto comunque sempre coerente. E’ come se “Disharmonic Revelations” in qualche modo riprendesse il discorso intrapreso nel 1994, riproponendo un’accentuata varietà nel songwriting e convogliando un’estrema rabbia nella realizzazione di molti brani. La furia cieca dei musicisti fa il suo dovere, ma la ridondante prolissità dell’insieme risulta talvolta disorientante: la tracklist conta ben 12 brani e 2 bonus tracks, per la durata di poco meno di un’ora, e purtroppo l’onnipresente desiderio di stupire porta talvolta la band a sacrificare quella continuità tra un brano e l’altro che aiuterebbe a portare a casa un ottimo risultato. L’elevato minutaggio del disco si combina con la grande eterogeneità delle composizioni, che risultano spesso così diverse tra loro da far perdere più di una volta il filo del discorso all’ascoltatore. Si arriva alla fine del disco con un po’ di fatica, insomma, soprattutto dopo il primo impatto che, invece, è totalmente positivo. Il devastante assalto dei primi brani genera un livello di eccitazione che non sempre viene mantenuto con le restanti tracce: “The Last One”, la title track, l’ottima “Parasite” e l’accettabile “A Part Of My Identity” mettono una grande acquolina in bocca, ma proprio quando si inizia ad avvertire il gradevole sapore del sangue i Warpath iniziano a perdere qualche colpo. “Visions And Reality”, ad esempio, lascia a dir poco il tempo che trova e non bastano purtroppo le successive, passabili “Scars” e “Egos Aspire” a recuperare quanto di buono è stato fatto con i primi brani. “MMXX”, poi, contribuisce a far calare notevolmente la tensione, tanto da rendere incomprensibile la scelta di riproporne addirittura una versione alternativa come bonus track in chiusura del disco. Non si splende nemmeno con le rimanenti tracce, tra le quali riesce a spiccare la discreta “Resurrection”; inutile poi parlare della lenta, oppressiva e leggermente tediosa “The Unpredictable Past”, che in teoria dovrebbe essere l’ultimo brano del disco. Già, perché come anticipato poco fa ci attendono ancora due bonus tracks: la prima è “Innocence Fall”, piacevolmente rock‘n’roll e abbastanza movimentata da risollevare le sorti del lotto dopo “The Unpredictable Past”, mentre la seconda è per l’appunto la sciagurata riproposizione di “MMXX” in una versione alternativa di cui non se ne sentiva assolutamente il bisogno.
Che dire quindi? Premiamo l’ottimo livello della produzione e la buona volontà, ma quando la riproduzione si è fermata sono rimasto con una discreta quantità di amaro in bocca: il disco si conferma poco coeso, come se un’ipotetica fretta di far uscire l’album avesse costretto la band a fare le cose in modo leggermente raffazzonato. Obiettivamente, ad un primissimo esame, non c’è nulla che non vada: la produzione è di alto livello e le canzoni sono originali, mai ripetitive e molto varie; è chiaro come lo sforzo compositivo sia notevole, ma manca all’insieme quella coerenza che ci si aspetterebbe da una band storica come questa. Che il gruppo cerchi di mettere molta carne al fuoco è giusto e sacrosanto, ma la costante ricerca di passaggi ad effetto e di stacchi inaspettati mal si combina con l’evidente mancanza di una strada maestra capace di guidare la collera dei Warpath. Tutto questo si traduce in un’opera che, saltando senza soluzione di continuità da esempi pregevoli come “Parasite” a insoddisfacenti come “MMXX”, rischia spesso di far calare l’attenzione dell’ascoltatore. Mi spingo in avanti con la fantasia: una riflessione più oculata prima della pubblicazione dell’album avrebbe forse indotto tutti gli interessati ad optare per un lancio esplorativo di un EP, con una tracklist limitata ai devastanti primi brani, per poi passare con più calma a un riesame completo di tutto il resto. Forza Warpath! Le premesse ci sono e la formazione attuale riesce a produrre canzoni notevoli: battete il ferro finché è caldo e riprovateci, noi rimaniamo in attesa, fiduciosi e con “Parasite” fissa nella playlist. In bocca al lupo ai Warpath e buon ascolto a tutti!