Recensione: Dismember
Sono passati ormai 11 anni da quando, per la prima volta, i Dismember hanno introdotto elementi nuovi nel loro classicissimo e primigenio death svedese: da quel Death Metal che voleva essere una risposta alla Nuclear Blast, che dava l’omonimo genere musicale per spacciato commercialmente. Un inizio di melodia maideniana, sempre ben lontana dall’abuso che ne fecero poi altri gruppi loro connazionali. Ne sono passati invece solo due da The God That Never Was, quello che il chitarrista (e unico membro fondatore rimasto) David Blomqvist considera come “l’album più melodico dei Dismember dopo ‘Massive Killing Capacity'”, pur non rinnegandolo come l’album del 1995.
È passato insomma del tempo, ma mai come oggi, probabilmente, si eranos entiti dei Dismember tanto compatti, omogenei e capaci di riassumere le caratteristiche che ormai compongono in pianta stabile il loro stile. Dismember è infatti il disco definitivo per la seconda fase della band, e segue un ulteriore sconvolgimento interno: l’abbandono del batterista e leader Fred Estby, che tanto ha dato negli anni al gruppo svedese.
Impossibile tuttavia non notare come, questa volta, tutte – e davvero tutte – le tendenze verso cui le loro canzoni puntualmente si muovono, dalla melodia NWOBHM al death soffocante degli Autopsy, trovino la giusta realizzazione. L’attacco diretto, quello che rimanda sempre e comunque a quel capolavoro di Like An Ever Flowing Stream, appare immediatamente in una opener incendiaria come Death Conquers All; il mammuth Autopsy si manifesta in una canzone perfetta come Europa Burns, e non più in pezzi tutto sommato noiosetti come… Autopsy, appunto, dal disco precedente; e il maidenianismo splende in modo quasi scandaloso, specie per chi rimane indossolubilmente legato al solo Pieces, nella terza Under a bloodred sky, che resta, piacica o meno a Blomqvist, il pezzo più melodico dell’intera carriera della band.
Tre pezzi in fila, tre canzoni che dichiarano subito le intenzioni di un album quasi perfetto, registrato analogicamente (eh sì, i cari vecchi nastri di una volta) e che gode quindi di una produzione perfetta per il suono death svedese, quello che a loro (e agli Entombed, nonostante tutto) appartiene. Niente filler in questo album, anche se pezzi meno straight in your face ci sono, a tratti: come la doomy No honor in death, dove la voce incazzata di Kärki si fa decisamente malefica e ricorda le produzioni dei Carnage, addirittura; o come la cupa chiusura Black sun, che sa quasi di atmosfera dark/doom inglese degli anni ’90 negli arrangiamenti melodici dell’intro.
Un album che farà godere come pazzi i fanatici di un suono che rinvigorisce con gli anni (e con le band giuste), e che paradossalmente amplierà il seguito della band svedese, ben lontana dal vedere la propria creatività spegnersi con la mezza età. Un luogo comune che calza davvero: “inossidabili”.
Alberto ‘Hellbound’ Fittarelli
Tracklist:
1. Death Conquers All 03:48
2. Europa Burns 03:33
3. Under A Bloodred Sky 05:24
4. The Hills Have Eyes 03:15
5. Legion 03:22
6. Tide of Blood 03:35
7. Combat Fatigue 02:29
8. No Honour In Death 03:07
9. To End It All 03:51
10. Dark Depth 03:48
11. Black Sun 06:24