Recensione: Distant Memories – Live in London [DVD]
La ricca videografia dei Dream Theater è costellata di scene imperdibili per i fan. Si va dallo strumentale “Bombay Vindaloo” e dalle cover suonate con Steve Howe e Steve Rothery negli anni Novanta, al grande show del Roseland (primo omaggio a Scenes from a memory); indimenticabile la prova di forza del Budokan (l’Instrumedley in setlist è qualcosa di notevole), così la celebrazione del ventennale in Score (con tanto di orchestra), per arrivare in tempi più recenti all’assolo stellare di John Petrucci in Live at Luna Park. Con Distant Memories il gruppo di NYC tenta di mantenere vivo il sodalizio con i fan di vecchio corso riproponendo l’intero Scenes From A Memory, album della consacrazione che risale al 1999. Già nell’encore del precedente Breaking the fourth wall in realtà comparivano alcuni cavalli di battaglia tratti da questo full-length, ma la volontà di suonarlo integralmente è un merito indiscusso della band di Petrucci, che comunque resta cauto circa eventi celebrativi di questo tipo. Il concerto del 22 febbraio all’Apollo Theatre di Londra tra l’altro ha avuto luogo dieci giorni dopo quello di Assago: si era all’inizio della pandemia da COVID-19 e ancora nessuno poteva prevedere a cosa saremmo andati incontro. Ben venga dunque la volontà di proporre una simile uscita in tempi di clausura forzata.
La prima cosa che stona, invece, è il main artwork, la mascotte del tour di Distance over time infatti è un teschio che poco ha da spartire con il sound del gruppo di Petrucci, ma compare comunque in copertina grazie a un terribile fotomontaggio con la cover di SFAM. Quasi quasi si rimpiangono i tempi delle formiche di Systematic Chaos… Dal punto di vista audio e video il dvd non ha evidenti punti deboli, la qualità grafica è quella delle uscite più recenti della band e il mixaggio è discreto, peccato per la resa della batteria di Mangini che viene penalizzata senza motivo. Per il resto il palco è estremamente sobrio, oltre a un video wall non ci sono cablaggi anacronistici, solo pedaliere, l’asta personalizzata del microfono di LaBrie e la Korg snodata (e inclinabile con angolazioni assurde!) di Rudess che ingloba al suo interno un mini continuum e un tablet con MorphWiz. Di fronte a una scenografia così essenziale pesa tuttavia ancora di più l’assenza di Mike Portnoy, che da solo riusciva a rendere gli show dei Dream Theater molto più coinvolgenti e goliardici. In SFAM del resto c’è moltissimo dell’ex batterista, che coprodusse l’album (il primo della coppia Petrucci–Portnoy) e scrisse i testi di “Home” e “Finally Free”. In futuro una reunion per suonare pezzi storici come “The spirit carries on” è un dovere morale della band.
Venendo alla setlist, tutto inizia con un video sci-fi dei fratelli Lamoureux (che ci ricorda quanto è vasta la discografia dei DT) con in sottofondo un pezzo adrenalinico dei Two stesps from hell. LaBrie compare sul palco con una maglietta da Joker e il solito pizzetto da metallaro. “Untethered Angel” funziona on stage, ha un buon tiro, ma è “A Nightmare to Remember” a stupire nel suo incedere magniloquente. Il brano da 16 minuti era tra quelli richiesti nelle audizioni per il nuovo batterista nel 2010 e Mangini si dà da fare per non deludere i fan, anche se il mixaggio non rende completamente onore alla sua prova strumentale. Tra i brani dell’ultimo album da segnalare la discreta interazione con il pubblico nella parte lenta di “Falling into the light” e l’ottimo assolo di Petrucci in “Barstool warrior” (brano a sua firma). Su “Pale blue dot” non ci dilunghiamo, il video tratto dal dvd è stato pubblicato tempo fa e mostra la precisione chirurgica del combo americano nel suonare uno dei brani più rappresentativi di Distance over time, con il suo timing iniziale in 19/16. D’applausi anche l’attacco al fulmicotone di “In the Presence of Enemies pt. I”, Mangini non manca un colpo e Petrucci riesce a districarsi nella non semplice riproposizione live di un brano tra i più impegnativi. Peccato non segua la seconda parte, ma si tratta pur sempre di una suite dal minutaggio prolungato difficilmente proponibile nella sua interezza. Fin qui le impressioni sono positive, LaBrie fatica ma l’auto-tune lo aiuta costantemente e Petrucci da solo regge la scena con una pulizia di tocco e una capacità d’emozionare indiscussa, è lui l’anima della band.
Ma ora passiamo al cuore dell’evento, i vent’anni di SFAM. Per introdurre la seconda parte della setlist, i nostri propongono alcune immagini su video wall: sono tratte da una sorta di graphic novel che illustra il concept del 1999 in modo inedito, idea passabile e con un minimo di originalità. I fan conoscono i momenti topici del platter: parliamo della sontuosa overture strumentale, il riffone di “Beyond this life”, la ballad The “Spirit carries on” (uno dei pezzi più noti dei Dream Theater insieme a “Pull me under”), i tempi dispari di Dance of eternity, ma anche il refrain di “Home” (presentata da LaBrie come “the metal song of the album”) e il finale pirotecnico di “Finally Free”. In realtà tutto il disco è una pietra miliare e per molti motivi, ha infatti rilanciato la band alla fine del suo decennio creativo (con l’innesto di Jordan Rudess), è un concept dalla struttura e coesione invidiabili, ingloba al suo interno una serie di assoli di pregio indiscusso e un mix di stili che ne fanno il degno comprimario di Image and words.
Tutto scorre qundi senza problemi, anche a vent’anni di distanza, l’alchimia della band è rimasta quella degli anni d’oro: vedere Petrucci e Myung spalla contro spalla nel suonare ritmiche serrate resta una gioia per la vista e l’udito. Fra le trovate, invece, che dimostrano l’attenzione della band per i dettagli notiamo i nomi di grandi musicisti come Zappa, Rhoads, Squire, Cornell incisi sulle lapidi del cimitero in graphic novel che campeggia nel video introduttivo di “Through Her Eyes”.
Se confrontiamo invece la versione del Budokan di “Beyond this life” con quella di Distant memories non c’è paragone per quanto riguarda la prova di James (davvero troppa auto-tune questa volta), per il resto Petrucci e Rudess non hanno perso smalto. Da dimenticare il falsetto del cantante canadese in “Through her eyes”; immancabili viceversa i cellulari accesi in “The spirit carries on”, mentre in “Finaly Free” Mangini, pur non rispettando il dettato di Portnoy, regala emozioni con alcuni fill intricati in controtempo. In sostanza l’album del 1999 è stato riproposto in modo dignitoso, senza snaturarne l’essenza pur non coinvolgendo ospiti a infoltire la lineup.
Da ultimo, considerata la lunghezza media degli show targati Dream Theater, c’è spazio anche per un breve encore con “At Wit’s End”, scelta più che felice (è infatti uno dei brani migliori dell’ultimo studio album). Nella special edition con la versione audio del live in aggiunta troviamo “Paralyzed”, ma non regge il confronto con gli altri brani in scaletta.
Dopo tanto sfoggio di tecnica e centinaia di note suonate a velocità supersonica, quello che colpisce nei live dei Dream Theater è sempre e comunque la sintonia che si viene a creare tra musicisti e la strumentazione impiegata: basta guardare John Petrucci e la sua Music Man per restare mesmerizzati, chiunque abbia visto la band on stage sa a cosa mi riferisco. È lui del resto il leader del combo americano e da solo mantiene in piedi il gigante theateriano che ormai ha festeggiato trent’anni di carriera. Gli altri componenti sono degni comprimari: Rudess sfoggia (tra le altre diavolerie a sua disposizione) una nuova tastiera a tracolla dal design affilatissimo e tasti in total black, Myung è di una compostezza zen ma macina note su note, Mangini sfoggia un look alternativo con occhialoni da bricoleur e suona la propria batteria come fosse un’astronave. LaBrie infine si salva grazie a un importante impiego dell’auto-tune ma la sua mimica e presenza on stage è spesso fuori luogo ed evita il disastro solo grazie all’esperienza accumulata nel tempo.
E il pubblico? Gli spettatori paganti dell’Apollo Theatre sono comodamente seduti, si godono la location ricercata, ma da bravi amanti del prog non vanno mai oltre le righe. Fa comunque piacere vedere qualche corna e alcuni truemetaller con pizzetto, i Dream Theater hanno fidelizzato fan di diverse età ed estrazioni disparate.
In conclusione, questo live avrà un posto (seppur minore) nella discografia dei newyorchesi come in precedenza il tributo When Day And Dream Reunite. Non è il miglior concerto suonato dai Dream Theater ma come intrattenimento non ci si può lamentare, l’importante è gustare il live per piccole dosi, con il prog. non si scherza. I fan che hanno visto di persona il tour originale di Scenes From A Memory vent’anni fa potranno compiere un salto nel passato e allo stesso tempo capire davvero quanto sono cambiati i loro beniamini in termini di maturità artistica.
PS in questi giorni la band di Petrucci ha rilasciato un EP natalizio per supportare la propria crew che si ritrova in ristrettezze a causa della pandemia. Per chi volesse dar loro una mano…