Recensione: Disturbing the Peace
Congiungiamo le mani in preghiera e recitiamo un bell’ave agli Hailmary, all’ esordio con “Disturbing the peace“, pubblicato da Eonian Records e prodotto da Tom Fletcher (Dokken, Motorhead, Ozzy Osbourne, Scorpions…).
La band è in realtà già ampiamente navigata, in quanto nasce nel lontano 1980 ad Huntington Beach (California) da una costola dei Leatherwolf, la cosiddetta “Triple Axe Attack” ovvero l’innovativa formazione di ben 3 chitarristi: Michael Olivieri, Carey Howe e Geoff Gayer.
In quattro prolifici anni di attività (dal 1985 al 1989), la formazione pubblica ben 3 album, ma l’uscita di “Street Ready” segna la rottura con la precedente sezione ritmica, a cui subentrano Patrick Guyton (bassista) e Marco Forcone (batterista). Motivazione che porterà in seguito – anche a causa di vicende legali – a ribattezzare il gruppo con il moniker di “Hailmary“, gettando il seme di una nuova rinascita e rinnovata attitudine alla perseveranza.
È proprio da questa urgenza che nasce “Disturbing the peace“, un album che unisce la conoscenza della scena thrash south Californiana (Metallica, Slayer, Witch) alle musicalità sleaze rock originarie. E’ lampante infatti, fin dalla prima traccia, l’influenza di gruppi come Roxx Gang o Vain.
In “Mr Keeper” la chitarra apre con un riff ipnotico, cui si aggiunge la scura profondità del basso a creare la giusta amalgama. Michael Olivieri con la sua voce supponente sembra un incantatore di serpenti, ma al verso il serpente si incattivisce, scappa dalla cesta e cerca di mordere. Il batterista prende a dargliele di santa ragione con le bacchette e anche le chitarre diventano più “thrash”, con una ritmica che ricorda un po’ “Enter Sandman” dei Metallica, ma ha anche un non so ché di “Cowboys From hell” dei Pantera. Il motivetto “Scream my name, Mr Keeper“, ti rimane impresso nel cervello come un marchio a fuoco, impossibile da non cantare.
La componente ritmicamente veloce, incalzante e arrabbiata permane all’ interno di tutto l’album ed è ben evidenziata nella tribale “D.A.D” (acronimo di Deadbeat and Delinquent) e “Be my suicide” (questa la canzone più cupa e shock rock di tutto l’album). Ma c’è anche una bella dose di chitarra heavy metal, con riff che aggiungono un po’ di sano Iron al composto (la maiuscola è volontaria) come in “Killing my Dreams” oppure “The way I am“. Come non citare poi lo splendido assolo in puro acciaio inox di “Crush of love“? Per questo brano in particolare, “l’attacco della tripla ascia” si arma di due Fender, Stratocaster e Telecaster. Più una Gibson Les Paul. Ed è proprio quest’ultima a dare un tocco moderatamente blues & soul alla melodia.
Ma c’è anche tutta la componente 80s a supportarci. “Media Lobotomy” è una profezia: scritta 30 anni fa, parla di come i media strumentalizzino le notizie per dividere l’opinione pubblica usando la paura al fine di manipolarla. Suona molto “Skid Row” ma risulta perfettamente attuale e calata nel contesto contemporaneo.
Non manca la classica ballata che ci fa tirare fuori gli accendini dalle tasche (fortunatamente non per darci fuoco), ovvero “Friends” che parla di due amici che si ubriacano e fanno festa. La cosa però scappa di mano, iniziano a litigare e uno dei due finisce con un proiettile piantato addosso. “Con un amico come te, non ho bisogno di nemici“, gli dice Olivieri.
Ma è presente pure un’ interessante miscellanea punk con “This kid” che unisce lo slap del basso tipico del funk, con un po’ di “sporche” sonorità street che tirano fuori una vera “go f*** yourself” attitude. Stessa percezione per le ultime due canzoni che chiudono l’album: “I don’t understand” e “What’s your civilation?“, che sono un tributo al punk di Sex Pistols , Ramones, The Stooges.
Un album grintoso, capace di entrarti in testa e non uscirne più, complice l’azzeccata combinazione di influenze, in grado di renderlo un composto potenzialmente esplosivo e da maneggiare con cautela.
Ideale per darsi la carica!