Recensione: Diva Futura
Gli anni Novanta sono stati una decade importantissima per lo sviluppo e la crescita della musica dura. In quel periodo sono usciti una serie di capolavori che non hanno nulla da invidiare ai leggendari dischi degli anni Ottanta, quelli che hanno fatto la storia del metallo pesante.
I lavori pubblicati negli anni Novanta sono album a cui deve essere riconosciuta la fondamentale importanza di aver dato vita alle tante sfumature che, nel corso del tempo, hanno differenziato e arricchito la scena metal. Alcuni di loro, poi, devono tuttora essere compresi, in quanto troppo sperimentali e ricchi di contaminazioni da risultare troppo avanti per i tempi in cui sono stati pubblicati.
Gli anni Novanta, infatti, oltre all’autoritario ritorno del power metal – che nella seconda metà di quella decade fece la voce grossa, dominando la scena – sono stati caratterizzati da nuove correnti musicali e sperimentazioni varie. Questa nuova via ha prodotto una serie di gruppi che rappresentano gli attuali punti di riferimento della musica a noi cara. Basti pensare a nomi come Paradise Lost, Rotting Christ, Anathema, Moonspell, Samael, Lacuna Coil, Cradle of Filth… E la lista potrebbe continuare.
Negli anni Novanta abbiamo così assistito alla nascita di correnti nuove che, vista la solita bramosia di dare una definizione e una classificazione a qualsiasi cosa, hanno portato appassionati e addetti ai lavori a coniare una serie di termini nuovi, per descrivere quelle nuove visioni in musica. “Okay, ma perché queste riflessioni? Dove vuoi arrivare?”, vi starete chiedendo. Abbiate pazienza, seguitemi, un passo alla volta.
Proviamo a chiudere gli occhi e a fare un salto indietro nel tempo. Proviamo a rivivere le sensazioni e le emozioni che abbiamo vissuto negli anni Novanta. Cerchiamo di rivivere lo stupore, il fascino, la magia che alcuni di quegli album hanno lasciato in noi, giovani ascoltatori.
Prendiamo i Moonspell, ad esempio: dopo aver pubblicato “Wolfheart”, un debut album che può essere definito uno dei dischi più rappresentativi del black mediterraneo, il combo portoghese rilasciava un secondo full length, che si spingeva oltre, mescolando oscurità, gothic e reminiscenze black. Stiamo ovviamente parlando di “Irreligious”, un disco definito da molti come il manifesto del vampirismo in musica. Ma la band di Amadora decise di non fermarsi con la sperimentazione, lasciò libero sfogo al proprio estro, alla propria visione artistica. In successione pubblicò “Sin/Pecado” – dalle forti influenze electro-dark –, “The Butterfly Effect” – dalla marcata matrice industrial –, per poi cambiare nuovamente, dando alle stampe dei lavori che sono stati definiti dark metal e recuperare, poi, quell’anima black che ne aveva contraddistinto gli esordi.
“Sin/Pecado” e “The Butterfly Effect”, i due lavori più sperimentali, divisero i fan: da una parte c’era chi li esaltava e dall’altra, invece, c’era chi considerava quei dischi una sorta di abominio, due lavori con cui i Moonspell avevano tradito le proprie origini. Chi aveva ragione? Molto probabilmente entrambi. Il giudizio su un album viene dato soprattutto dal proprio modo di “sentire” la musica – che varia da persona a persona – e dall’epoca in cui il lavoro viene pubblicato. Negli anni Novanta, un integralista del lato oscuro difficilmente poteva apprezzare un disco come “The Butterfly Effect”. Chi aveva invece una visione meno massimalista, poteva provare interesse. Chi cercava la sperimentazione, un qualcosa di nuovo, beh, aveva trovato pane per i suoi denti.
Ma cosa accadrebbe se “Sin/Pecado” e “The Butterfly Effect” uscissero oggi, nel 2021? Beh, diciamo che rispetto al 1998 e al 1999, anni in cui i due dischi sono stati pubblicati, i tempi sono cambiati e, per certi aspetti, anche il metal e i metalhead lo sono. Credo di poter dire che se “The Butterfly Effect” fosse uscito oggi, sarebbe stato accettato e non avrebbe sollevato nessun vespaio, come invece avvenne nel 1999. In fin dei conti, oggi, alle band viene “concessa” la possibilità di sperimentare. E di album con influenze industrial ne abbiamo ascoltati, eccome. Questo ci fa comprendere quanto i Moonspell osarono in quel 1999 e di quanto anticiparono i tempi.
Ma non c’erano solo i Moonspell a sperimentare. Si pensi ai Paradise Lost, che dopo un esordio di stampo death oriented, pubblicarono il capolavoro “Draconian Times”, per poi virare verso l’electro-dark con il trittico “One Second”, “Host” e “Believe in Nothing”. I Rotting Christ, che dopo l’esordio di chiara matrice black, virarono verso influenze goth con dischi come “A Dead Poem” e “Sleep of the Angels”. Si pensi ai Samael, ai Tiamat, ai Septic Flesh di “Revolution DNA”… Tutte formazioni che sperimentarono, chi in una direzione, chi in un’altra.
Questa voglia di uscire dagli schemi del classico metal ottantiano ebbe differenti effetti sui vari gruppi che vi si cimentarono. Chi ne uscì vincitore – vedasi i Samael o i Paradise Lost, ad esempio –, chi ne uscì sconfitto.
Di questa seconda categoria – di quei gruppi che, purtroppo, non vennero capiti e accettati per la loro voglia di andare “oltre” – rientrano sicuramente i greci Nightfall.
Dopo aver pubblicato tre dischi di stampo death-black mediterraneo – in linea con quella corrente che stava prendendo piede in Grecia – nel 1997 i Nightfall decisero di cambiare rotta e pubblicarono il controverso “Lesbian Show”. Per i fan fu un vero trauma: dopo il seminale “Athenian Echoes”, i Nostri tornavano in scena con un disco la cui copertina e titolo eranotutto tranne che death metal. Con questo quarto lavoro, poi, la band del bassista-cantante Efthimis Karadimas cambiava logo, evidenziando in maniera ancora più netta la voglia di staccare con il passato. Visto con gli occhi attuali, quelli del 2021, “Lesbian Show” è un disco di transizione e come tutti i dischi di transizione presenta alti e bassi. È un album che fa capire chiaramente come, in quel periodo, la band fosse affascinata da altre sonorità. I Nightfall erano alla ricerca di una via nuova, che permettesse a Karamidas e compagni di trasporre in musica le emozioni che vivevano, sentivano e provavano in quel tempo. “Lesbian Show” era il primo passo verso questa direzione. All’epoca, però, l’album non venne accolto positivamente dai fan, anzi.
I Nostri non si fecero condizionare dalle critiche e andarono avanti, dritti per la propria strada. Solo due anni dopo, infatti, nel 1999, davano alle stampe “Diva Futura”, un album che deluse, e non poco, gli appassionati. “Diva Futura” è il lavoro più sperimentale pubblicato dai Nightfall, un disco che rappresenta in pieno quella “ricerca di una via nuova” che aveva coinvolto molte band del Vecchio Continente e di cui abbiamo parlato all’inizio di queste righe. Se nel 1999 “Diva Futura” poteva non essere capito e apprezzato, quali sono le reazioni e le sensazioni al suo ascolto ventidue anni dopo? Beh, possiamo dire che le cose cambiano, e cambiano pure tanto! “Diva Futura” non è solo un album che rappresenta in pieno una corrente degli anni Novanta, può tranquillamente essere definito come uno dei dischi più riusciti di quel movimento. Per comprendere il perché di questa mia affermazione, dobbiamo “entrare all’interno” del disco. Copertina, musica, testi… ogni componente dell’album rappresenta alla perfezione l’oscuro mondo in cui era piombato Karadimas in quegli anni. Un mondo fatto di desolazione, senso di solitudine, tristezza. Un universo che può essere descritto con una sola parola: depressione. Fu proprio in quel periodo che il bassista-cantante iniziò a soffrire di questo brutto male, senza rendersene conto. La depressione è un cancro che si insinua nell’animo umano, un passo alla volta, facendo cambiare completamente la visione della realtà. Ed è proprio in un quadro come questo – in cui Karadimas, purtroppo, ne era l’ignaro protagonista – che il musicista ellenico sentì la necessità di esprimere in musica, attraverso una nuova via, il turbolento mondo interiore che lo stava piano piano soffocando. Il death metal dei primi dischi non poteva rappresentare il buio che stava avvolgendo i suoi pensieri. Le nuove composizioni iniziarono così a prendere forma e si rivelarono un vero e proprio caleidoscopio in musica. In “Diva Futura”, infatti, troviamo influenze goth-rock ed elettroniche, che si vanno a combinare alla perfezione con l’impatto e il tiro del metallo pesante. Potremmo definire il disco come una sorta di ibrido, in cui eleganza, melodia, decadenza e adrenalina vengono mescolate alla perfezione. L’album diventa così una sorta di urlo, in cui Karadimas traspone in musica tutta la propria sofferenza interiore. Basta ascoltare la spettrale e onirica ‘Licked One’s Iced Lips’, il singolo ‘Diva’ – dove una decadente melodia ci avvolge dall’inizio alla fine –, l’opener ‘Master, Faster, Sweet Desaster’ o la rabbiosa ‘My Traitor’s Kiss’ per comprendere quanto appena scritto.
Ma non c’è solo il fascino della musica. Uno dei punti di forza di “Diva Futura” è sicuramente rappresentato dalla bellezza e dalla profondità dei testi, che possono essere paragonati a delle poesie. Attraverso le proprie liriche, in maniera più o meno diretta, Karadimas ci racconta le sue visioni, il suo mondo che, piano piano, stava diventando sempre più cupo e nero. Da sottolineare poi la prestazione vocale dello stesso Karadimas che, per valorizzare al massimo le canzoni, decide di abbandonare il growl, che male si sarebbe sposato con le sonorità di “Diva Futura”, per utilizzare un clean voice effettato. Una soluzione che lega alla perfezione musiche e voce e rende l’album ancora più “malato” e “compulsivo”.
“Diva Futura” può poi contare su una produzione stratosferica, frutto dell’ottimo lavoro svolto agli Impuls Studio ad Amburgo, in Germania. Ad accompagnare la band durante le registrazioni, in cabina di regia, c’era una certo Jan Genkel, proprietario degli studio e noto per la sua collaborazione con i Lacrimosa.
Ma come mai un disco del genere non riuscì a fare breccia nei cuori dei metalhead nei Nineties? Forse per ciò che abbiamo detto nella parte iniziale di queste righe. Non a caso le considerazioni con cui abbiamo descritto “Diva Futura” sono figlie del 2021. Nel 1999, forse, i tempi non erano maturi per poter recepire un lavoro come questo. Un altro aspetto su cui dobbiamo riflettere è poi la casa discografica con cui i Nightfall pubblicarono l’album: la Holy Records. L’etichetta francese era di sicuro un’ottima label underground, ma non poteva certo offrire lo stesso ritorno d’immagine garantito da colossi come Nuclear Blast o Century Media. I dischi dei Nightfall avevano quindi una copertura più “settoriale”, limitata forse ai soli fan della band greca. In quest’ottica, se deludevi i tuoi fan, faticavi a conquistarne altri. I canali pubblicitari della Holy Records, quelli che avrebbero dovuto spingere le produzioni immesse nel mercato, erano limitati. Più di una volta, infatti, mi sono chiesto cosa sarebbe potuto succedere se “Diva Futura” fosse stato pubblicato dalla Nuclear Blast. Una domanda che, purtroppo, non avrà mai risposta.
A distanza di anni, insomma, “Diva Futura” è un album che va rivalutato e apprezzato, per la sua qualità e originalità. Proprio in questa direzione la Season of Mist viene in nostro soccorso: in concomitanza con la pubblicazione di “At Night We Pray”, nuovo full length griffato Nightfall, la prestigiosa etichetta francese ristampa parte del catalogo della formazione ellenica. Tra queste nuove edizioni compare proprio “Diva Futura”, la cui prima stampa, pubblicata dalla Holy Records, è ormai di difficile reperibilità. La versione della Season of Mist vede l’album ristampato in CD – con un booklet di dodici pagine – e in una lussuosa versione doppio LP gatefold, con vinile colorato, limitata a cinquecento copie. Entrambe le versioni, CD e LP, contengono poi delle interessanti note di approfondimento in cui vengono spiegati alcuni importantissimi dettagli sui Nightfall e su “Diva Futura”: il significato del titolo del disco, come prese vita la copertina dell’album, quali sono gli argomenti su cui poggiano i testi e tante altre succose informazioni. Le note sono opera di Olivier ‘Zoltar’ Badin – redattore della rivista inglese Terrorizer Magazine – e integrate con degli interventi di Karadimas in persona. Una ristampa molto interessante, che ci permette di poter apprezzare in tutta la sua bellezza uno dei dischi più coraggiosi e riusciti di quella “via nuova”, propria degli anni Novanta, che più volte abbiamo citato in questo articolo. L’invito, quindi, è di non farsi scappare questa nuova edizione di “Diva Futura”, in particolare la versione in vinile, vista la limitatissima tiratura con cui è stata realizzata. I collezionisti sono avvisati.
Marco Donè