Recensione: Diver Down

Di Abbadon - 7 Novembre 2003 - 0:00
Diver Down
Band: Van Halen
Etichetta:
Genere:
Anno: 1982
Nazione:
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70

Per quanto bravo e fenomenale possa essere, ogni gruppo musicale, guardando indietro nella sua carriera, vede uno o dei tratti dove ha avuto una flessione verso il basso nella qualità complessiva delle opere. Succede a tutti e non c’è (quasi mai) niente di male, semplicemente indica che nessuno è perfetto. Questa fase (con l’indagine limitata alla parte migliore della carriera del combo) è capitata anche agli statunitensi Van Halen, e per la precisione, al giudizio di chi scrive, l’anno di flessione è il 1982, anno forse migliore in assoluto per il nascente fenomeno dell’Heavy Metal. I famosissimi rockers guidati dal duo Edward Van Halen / Diamond David Lee Roth erano reduci da 3 anni di grandissimo e meritato successo, con vendite plurimilionarie date dagli eccellenti “Van Halen”, “Van Halen II”, “Women and Children First”, e da un 1981 contraddistinto per me da un ottimo prodotto estremamente sottovalutato da pubblico e critica, “Fair Warning”. I 4 giungono al fatidico primo anno da me menzionato come una delle realtà di punta dell’ultima generazione dell’Hard Rock e, forse per mantenere la media dell’uscita di un disco all’anno, o forse per altro, mettono sul mercato un disco molto atteso, ma che alla prova dei fatti, visto soprattutto il nome altisonante, forse delude. Il prodotto in questione si chiama “Diver Down” e, pur rimanendo nel complesso un discreto lavoro, risulta essere un semi-flop perché fa chiaramente capire quanto la band fosse in crisi di idee (a livello non qualitativo quanto quantitativo) all’epoca. Mi spiego meglio. Se da un punto di vista tecnico i vari Alex, Dave, Eddie, Michael e Jan Van Halen (special guest che si destreggia con grazia al clarinetto, strumento presente in alcune tracce) ci sono eccome (basta sentirli suonare e cantare per capire che la classe non è acqua e che i ragazzi sono in un periodo di forma molto alto), dal lato compositivo iniziano ad affiorare dei limiti dovuti forse alla saturazione di soluzioni che il campo di competenza della loro caratteristica proposta musicale poteva dare. La prova di questa affermazione si può vedere soprattutto da 3 cose :  le cover, le canzoni normali, la proposta futura.

Discorso covers. Sono tra le migliori canzoni del disco, e su questo forse non ci piove, ma il fatto che su 12 brani le cover occupino ben 5 spot evidenzia chiaramente la mancanza di inventiva o di voglia nel fare qualcosa di proprio e di innovativo. Allora perché non aspettare un altro po’ di tempo per ridurre magari le cover da 5 a una o due?

Canzoni proprie : Non sono male nella maggioranza dei casi, ma delle sette composizioni vanhaleniane praticamente tre sono introduzioni ad altre song, e le tracce vere e proprie si riducono a 4, decisamente poche.

Dischi Futuri : Vista l’uscita, un anno dopo Diver Down, di “1984”, album bello e soprattutto molto differente e sperimentale rispetto ai precedenti, la tesi di un cambiamento di pelle e saturazione di cui parlavo prima rafforza le sue radici. Forse i Van Halen (soprattutto Eddie) avevano capito che era ora di fare un’evoluzione stilistica pur senza scadere nel ridicolo (e infatti 1984 è un signor album).

Fatte le premesse e date le istruzioni per l’uso, passiamo alla visione ai raggi X di Diver Down, con la panoramica dettagliata delle 12 tracce che lo compongono. Manco a dirlo si inizia con la cover di “Where Have All the Good Times Gone!”, scritta da Ray Davies e ovviamente reinterpretata in maniera propria dalla band. Song piuttosto lenta ed evocativa ma un po’ ripetitiva già nella versione originale, anche nella reintepretazione non perde le sue caratteristiche principali, quindi un gran bello schitarrare di Eddie, preciso ad eseguire riffs e rifiniture, un’ottima prova dei suoi compagni, ma ritornello scarso e una sensazione di sonnolenza man mano che la canzone procede. Andiamo meglio con la successiva e rapida “Hang’em Up”, pezzo stavolta dei Van Halen, non esageratamente tecnico, ma che lascia il segno dal punto di vista delle ritmiche e dell’allegria. L’inizio non è il massimo ma con l’andare avanti l’enfasi aumenta decisamente. Da segnalare la bravura di Diamond Dave soprattutto quando deve alzare le tonalità di voce senza però perdere di intonazione. Buono anche l’assolo, ciliegina di una buona canzone che fa spazio a “Cathedral”, intro decisamente sacrale (eseguita da tastiere settate a mò di strumenti che tutto hanno a che vedere tranne che col rock, come organetti, strumenti a fiato eccetera) che fa da preludio al mid tempo “Secrets”. Decisamente tranquilla e mai fuori dalle righe, Secrets è una tipica composizione che fa compagnia in momenti di relax assoluto. Il suonato non non presenta uno strumento che domina sugli altri, ma viene ricreato un mix perfetto ed equilibrato fra chitarra, basso e batteria, accompagnati da una voce ordinata e riconoscibilissima, che ogni tanto si lascia andare ai classici acuti alla Roth. Pur nella sua relativa lentezza e monocordicità la track non stanca, e, seppure ad ascolto finito non rimanga particolarmente impressa nella memoria, durante il suo scorrere lascia un piacevole ricordo. Quinta e di fatto seconda intro è la particolare e strumentale “Intruder”. Accompagnata per tutto il suo corso da un accattivante drumming, l’atmosfera “intruderiana” è molto cupa, con basso veramente lugubre e chitarra distorta. Forse proprio questo gioiellino di poco più di un minuto e mezzo è la vera bomba di Diver Down, in quanto riesce completamente a distogliere e lasciare di stucco l’ascoltatore, tenendo conto che porta diritti diritti alla song per quanto mi riguarda più frizzante e gustosa del platter, ovvero la cover (ma deve proprio essere una cover la miglior canzone del disco??) della famosissima “(oh) Pretty Woman”, proprio la soundtrack dell’omonimo film con Julia Roberts. Dire che l’esecuzione è da leccarsi i baffi è poco. Tutto il sentimento e la vocazione del vocalist emergono appieno, accompagnate da un’eccellente batteria e una sbarazzina chiatarra, che diventa magistrale, nel contesto, nel tratto centrale, in assoluto il migliore della song. Spettacolo. Settimo pezzo e terzo preso “in prestito” è “Dancing in the Street” di William Stevenson, Jo Hunter e Marvin Gaye. Anche qui la rielaborazione è decisamente riuscita, anche se la traccia non è esattmente del rock che ci si può aspettare da una band come i Van Halen del 1982, ma sa anzi molto di futuro, con la guitar a creare particolarissimi effetti che, in sostanza, dominano sul resto del suonato. E’ un sacco di tempo, o meglio, un sacco di brani, che non sentiamo una esecuzione scritta dai Van Halen (escludendo le varie intro ben 4), purtroppo l’attesa continua con l’introduzione a “Little Guitars”, un ottimo arpeggio che ci porta alla “Little Guitars” vera e propria, mid tempo tendente al veloce che inizialmente ha un riff crudo e una altisonante batteria, ma che poi diventa di buona vivacità (anche se alla lunga stanca). Vi sono numerosi stacchi melodici di pregevole fattura, che denotano la varietà di soluzioni della track, track che però, a parità di lunghezza, verrebbe surclassata in quanto a bellezza dalla sua introduzione. Altra cover che più classica e impensata non si può è quella che vede il combo esibirsi in “Big Bad Bill (Is Sweet William Now)”, canzone dell’epoca che fu, dal ritmo estremamente trascinante  e che anche in questo “ammodernamento” profuma di passato, soprattutto grazie alla prova maiuscola del clarino di Jan Van Halen. La penultima fetta del platter, “The Full Bug”, è l’ennesima evoluzione dello stile, iniziato con “Sinner’s Swing” (presente su Fair Warning), che porterà alla composizione di “Hot for Teacher”. Le tre song infatti, pur mantenendo tratti diversi, si assomigliano nel ritmo e nelle strutture metriche in maniera incredibile, e ciò non è male, visto la bellezza del risultato finale presente su 1984. Assurdo il commiato dei Van Halen, che relegano Diver Down alla storia con un coretto che intona una “Happy Trails” che se da un lato dimostra quanto la band sia spiritosa e affiatata anche a livello vocale, dall’altro fa veramente morire dal ridere.

E’ finito uno dei dischi più assurdi in assoluto che mi sia capitato di ascoltare, che dimostra ancora una volta quanto i Van Halen fossero bravi e suonare e fossero eclettici dal punto di vista del colmare con trovate particolari ed inaspettate un periodo di certo non ricco di idee. E’ però vero che da un gruppo così ci si aspetta molto di più in materia produttiva e che, per quanto possano essere simpatiche cover, cori eccetera, forse era meglio aspettare un altro po’ di tempo per sfornare un prodotto meno goliardico (prendete con le pinze il termine) e più vero e personale.

Riccardo “Abbadon” Mezzera

Tracklist :

  1. Where Have All the Good Times Gone! *
  2. Hang’em High
  3. Cathedral
  4. Secrets
  5. Intruder
  6. (Oh) Pretty Woman *
  7. Dancing in the street *
  8. Little Guitars (Intro)
  9. Little Guitars
  10. Big Bad Bill (Is Sweet William Now) *
  11. The Full Bug
  12. Happy Trails *

NB : con * sono indicate le cover

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