Recensione: Divination

Di Fabio Vellata - 23 Agosto 2013 - 16:57
Divination
Etichetta:
Genere: Thrash 
Anno: 2013
Nazione:
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78

Ne è passata di acqua sotto i proverbiali ponti da quando abbiamo avuto il piacere di occuparci del primo demo d questa interessante realtà tricolore, sbuffante ed imperioso condensato di heavy metal acceso, massiccio e quadrato, oggi alle prese con “Divination”, secondo capitolo di quella che si preannuncia come un’interessante carriera.

Oggi lo chiamiamo “groove metal”, una definizione entrata in voga per definire uno stile musicale dai tratti spigolosi e taglienti, mai troppo veloce, spesso imperniato sulla potenza di ritmiche scardinanti e, soprattutto, basato sulla solidità di chitarroni roventi ed infuocati, elemento irrinunciabile da portare con costanza in primo piano.
Particolari che, uniti ad un certo gusto quasi “southern” delle melodie (tuttavia meno preponderante rispetto al predecessore “Revo(so)lution”), costituiscono un menù calzante nel descrivere quanto proposto dal gruppo milanese, in realtà molto più facilmente inquadrabile come un ibrido tra Black Label Society e Machine Head, mescolati con qualche asperità death ed un po’ d’intransigenza thrash. Senza per questo, apparire troppo derivativo o privo di una propria ragion d’essere, in virtù di un songwriting che quasi mai si mostra scarno e lineare.

Come dicevamo in apertura, di tempo ne è passato e l’esperienza maturata dal quartetto – già protagonista di un buon esordio nel corso del 2010 – sembrerebbe aver portato in dote frutti qualitativamente notevoli.
Esempio specifico ed esplicativo sia la terremotate opener “Echoes Of Violence”: sette minuti di tempesta sonora in cui la memoria dei Machine Head di “Burn My Eyes” appare una costante consolidata, definita senza possibili errori dalle vocals “incazzose” di Franco Campanella (un autentico fuoriclasse del settore) a tratti non troppo distanti dallo stile di Rob Flynn, e da un incedere tanto quadrato e roccioso da ricordare in parte la devastante ed adrenalinica “Davidian”, brano che, proprio di “Burn My Eyes”, costituiva una delle punte di diamante.
Similitudini e termini di paragone che non si esauriscono nella convincente traccia d’esordio, ma tendono piuttosto a mantenersi costanti lungo l’intero arco dell’album, caratterizzato da brani mediamente lunghi e da un perenne “nervosismo” di fondo, riverberato in testi dal taglio decisamente bellicoso e combattivo, mai banali, spesso ben ponderati e significativi.

Feroci, complesse, eppure estremamente godibili, tracce quali “Against”, “Parody” e “Symptoms”, evidenziano poi una grande carica emotiva ed un allestimento altamente professionale nella produzione dei suoni, senza dubbio adeguati nel riferirsi ad un mercato che non sia territorialmente di nicchia.
Sonorità non certo facili per l’orecchio meno allenato (numerose le dissonanze, tanti gli stop and go ed i cambi tempo presenti nei singoli episodi) e toni che non accennano in alcun frangente a moderarsi per concedere requie all’orecchio. “Divination” si propone nelle vesti di una mattonata deflagrante che procede come un gigantesco mezzo corazzato tra rovine, sferragliando a più non posso con diabolica determinazione.
Grandi chitarre, impostate sulla base di un rifferama che più volte assume le sembianze di quello in dote al nerboruto mr. Wylde, potenza a profusione e vocals assolutamente di qualità per il genere.

Una panoramica insomma, che definisce i contorni di un disco aspro e tagliente, in cui riconoscere – senza incertezze – valori di buonissimo livello.

Forse la seconda uscita prodotta dagli Spanking Hour potrà risultare – nel complesso – un pizzico opprimente e di difficile assimilazione, in forza di una durata non proprio esigua e di una struttura dei pezzi spesso articolata e ben lungi dal definirsi easy listening.
Tuttavia non può non essere posta in fiera evidenza la qualità assoluta che anima il progetto di Franco Campanella e compari, responsabili di un lavoro sopraffino ed esplosivo che, sin dagli esordi, avevamo intuito poter essere ricco di valide prospettive.

Il quartetto osa, colpisce duro e mette in gioco tutta l’aggressività di cui è in possesso: il risultato è un album che convince, affascina e conquista meritati applausi.

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