Recensione: Divine Comedy: Inferno
Quando si dice il caso: dopo aver chiuso, l’anno scorso, la trilogia degli italiani Starbynary sull’immensa Comedìa del mai abbastanza lodato Dante Alighieri, credevo che per un po’ il mondo della musica pesante avrebbe concesso riposo all’opera del Sommo. Oggi invece scopro, non senza una certa soddisfazione, che in questo periodo sono usciti almeno tre lavori* riguardanti l’Inferno dantesco. Come molti di voi avranno intuito leggendo il titolo qui sopra uno di essi, “Divine Comedy: Inferno”, è l’album che andrò a trattare oggi. Innanzitutto pollice alto per la copertina: la scelta di un’incisione di Gustave Dorè potrà sembrare ai più smaliziati tra di voi fin troppo telefonata e piaciona, ma a me che son di bocca buona scalda sempre il cuore. Tornando a noi, “Divine Comedy: Inferno” è il quarto lavoro dei Bestial Invasion: per chi non li conoscesse, i cinque ucraini uniscono le forze nel 2014 per dedicarsi ad un thrash metal tecnico che fa dell’estro musicale uno dei suoi tratti distintivi più marcati. La perizia esecutiva dei nostri non è in discussione, così come la loro consapevolezza dei propri mezzi e la loro capacità di scrittura, eppure stavolta qualcosa sembra essersi inceppato: nonostante l’album sia cresciuto con gli ascolti continuo a considerarlo solo come un buon lavoro anziché la folgore in cui speravo di imbattermi visto il nome del gruppo. Forse sarà il concept dantesco che ha convinto i nostri ad optare per una resa meno istrionica del solito: fatto sta che nelle nove tracce – una per ogni girone infernale – che costituiscono questo “Divine Comedy: Inferno” i cinque ucraini tengono la propria verve ben sotto i livelli di guardia. Ciò, se da un lato dona all’album un tono complessivo più omogeneo, coeso, limitando infiltrazioni di generi esterni che forse sarebbero risultate troppo fuori contesto, dall’altro va ad intaccare il suo tasso di imprevedibilità e follia, smorzando uno degli aspetti che me li avevano fatti adorare. Altro elemento di novità è costituito dall’introduzione delle tastiere, che sostengono in maniera discreta le canzoni per incrementarne l’atmosfera incombente e luciferina ma che, in qualche occasione, finiscono per diluirne la carica propulsiva.
Si parte subito bene con “Limbo”, traccia frenetica in cui i nostri si divertono a modo loro intrecciando frustate fulminanti a rallentamenti atmosferici cangianti, a metà strada tra minaccia e quiete, perdendo però mordente nel ritornello a mio avviso un po’ sottotono. “Lust” si apre con un tono declamatorio e solenne, che in breve cede il passo a un pezzo arcigno e scandito che si carica, ogni tanto, di improvvise pennellate dal pronunciato lirismo. Le tastiere sostengono bene il lavoro delle chitarre nei momenti più tirati, donando alla traccia un tiro interessante. Molto bella la sezione strumentale che apre l’ultimo terzo del pezzo, che bilancia ottimamente eleganza, frenesia e cafonaggine. “Gluttony” parte grintosa, concentrata, con un tasso di incombenza di tutto rispetto che si stempera solo grazie ai brevi interventi melodici e un’altra sezione strumentale molto ben fatta. “Greed” è una breve strumentale dai toni sognanti che si caricano di enfasi col procedere del minutaggio, mentre con “Anger” i nostri recuperano la grinta tornando a dispensare una buona dose di mazzate. Il pezzo si mantiene per buona parte del tempo frenetico, diretto, ma non si dimentica di inserire fugaci iniezioni di trionfalismo nei punti giusti e un intermezzo dal retrogusto latino. Si passa alla scandita “Heresy”, caratterizzata da una spiazzante alternanza di profumi che vanno dall’heavy classico al rock elegiaco, stemperati qua e là da schegge impazzite di vitalità e pathos che le donano la giusta rotondità. È ora il turno di “Violence” che, dietro uno spiccato retrogusto death melodico (dalle parti di certi Dark Tranquillity vecchia scuola) screziato da incursioni strumentali più guardinghe e a tratti perfino languide, si diverte a mescolare carica irruenta e melodie accattivanti con, in più, ampie dosi di trionfalismo. “Fraud” si districa su velocità diverse, inframezzando passaggi più dilatati, a tratti contemplativi, a frenetiche accelerazioni, sfumando poi il tutto con passaggi dal profumo di progressive settantiano. Si arriva alla conclusiva “Treachery”, introdotta da un intervento narrato sorretto da melodie drammatiche. La traccia parte propositiva, caratterizzata da un tono plumbeo ed inquieto, e alterna momenti scanditi ad altri più diretti, ma in un paio di occasioni ho percepito qualcosa che non andava per il verso giusto, come se il gruppo girasse a vuoto perdendo così, l’occasione di chiudere l’album con i giusti fuochi d’artificio.
Sarò onesto: pur non faticando a definire questo “Divine Comedy: Inferno” un signor album (come si evince dal voto abbondantemente sopra la sufficienza), mentirei se non dicessi che mi ha suscitato emozioni più tiepide del previsto. Diciamo che stavolta non ho percepito quel quid che mi aveva reso così avvincenti “Contra Omnes” o “Monomania”. Altrimenti detto: pur avendo fatto tutto bene, non è scoccata la scintilla. Al di là della mia delusione, “Divine Comedy: Inferno” resta comunque un lavoro concentrato, dall’ottimo tiro, suonato molto bene e dotato di alcuni picchi esaltanti: un lavoro con tutte le carte in regola, insomma, per far breccia in molti amanti non solo del thrash tecnico ma anche del metal in generale.
* per chi se lo fosse chiesto, oltre a questo abbiamo il quasi omonimo “The Divine Comedy: Inferno” dei symphonic metallers Signum Draconis e il nuovo lavoro dei doomster italiani In Aevum Agere: “Emperor of Hell: Canto XXXIV”