Recensione: Divine Darkness
«The moon glows a deeper shade of blood signalling the return of Crimson Moonlight…»
Quando la luna si tinge di rosso, è l’ora dei Crimson Moonlight. Nati nell’ormai lontano 1997, dopo i due full-length “The Covenant Progress” (2003) e “Veil Of Remembrance” (2004), l’Era del Serpente torna con il neonato “Divine Darkness”.
Torna l’era della misantropia, della furia cieca, del fast black metal. Sì, del fast black metal, fattispecie sempre viva nelle lande più nascoste e oscure delle terre boreali. Superato in popolarità da altre fogge black, ma mai sconfitto dai nuovi flavour che imperano nel terzo millennio. Vengono in mente gente come i Troll, ma i Crimson Moonlight suonano più secco, più diretto, meno elaborato, rispetto ad essi. Ciò, malgrado le sintetizzazioni di Per Sundberg e i campionamenti di Gustav Elowson; mirati esclusivamente, o quasi, a supportare l’agghiacciante muraglione di suono eretto dalle due chitarre, spinte alla velocità della luce dall’hyper-blasting di Elowson stesso. Pure Pilgrim Bestiarius XII, anzi più di tutti, fa atto di fede al fast black metal, e fa inoltre onore al proprio war-name, aggredendo chiunque gli si pari innanzi con un miscuglio scellerato di scream e growl.
L’impatto di song come l’opener “The Dogma Of Chalcedon” è spaventoso, annichilente; teso all’ottenimento, in musica, dei medesimi effetti di una deflagrazione termonucleare. Nessuna pietà per un genere umano avvelenato da se stesso, dai suoi miseri sentimenti imperanti sin dalla notte dei tempi quali odio, intolleranza, ipocrisia. “The Suffering”, davvero, si raffigura come l’estremo sacrificio sonoro, srotolandosi a mó di suite della scarificazione timpanica. Il gradiente di pressione atmosferica generato dalla canzone è inumano e, come Carone, traghetta la mente oltre le sponde della sanità mentale. Là, dove regna l’allucinazione, il distacco da una realtà misera e priva di alcuna forma di gioia, di felicità.
Il fantastico sound dei Crimson Moonlight, dovuto alla produzione di Samuel Durling ma anche alla registrazione e missaggio della band stessa assieme a Ulf, regala vette di visionarietà alte l’incommensurabile. Cime sui cui pinnacoli terminali soffiano venti ghiacciati, che trasportano molecole di odori lontani. Odori di morte, disperazione; arcaiche particelle di antimateria che, come si spera, produrranno la tanto agognata dissoluzione dell’Uomo, così com’è eticamente incancrenito.
Nessuna pietà per nessuno. Del resto, nessuno la merita. “I Am Tribulation” è allora lì, per fagocitare coscienze, anime, spiriti vitali, per digerirle e quindi dissolverle nel vuoto del Cosmo. Lo stordimento da iper-velocità è costante, non cala, non mostra indecisione: i Crimson Moonlight spingono quanto più è loro possibile per produrre l’inversione della putrefacente morale umana, sì da spingerla nelle viscere del Serpente. Il raggelante rallentamento del sound che si rende concreto nella lenta, sinuosa e dissonante “Voistinu Voskrese” (“Buona Pasqua” in russo, NdR), conferma la volontà dei quattro musicisti di Jönköping nel rifiutare l’illusione della vita, quando c’è solo la certezza della sofferenza, del dolore, della morte.
Torna di nuovo il vento, si odono i versi dei lupi in lontananza, le campane ritoccano suoni sinistri, ed esplode l’Apocalisse con “Kingdom Of The Wolf”, inumano assalto alla giugulare e all’arteria femorale. Non c’è scampo, non c’è difesa. L’unica possibilità per un dolce trapasso è quella di lasciarsi andare, di lasciarsi travolgere, di lasciarsi profanare dall’annientamento assoluto, dalla disintegrazione protonica, dall’abbaglio ad altissima energia dei quark sì prodotti.
Forse non è particolarmente originale, “Divine Darkness” ma, oggi, sono ben poche le realtà viventi in grado di spingersi così tanto oltre la sfera del suono (“Dusk”) come i Crimson Moonlight.
Perdizione.
Daniele D’Adamo