Recensione: Division By Zero
“Suoniamo sin dal 1994 e dopo tanti anni di esperienza vorremmo poter essere ascoltati dalla scena prog di tutto il mondo”.
Inizia così la biografia promozionale che accompagna il nuovo album dei Memento Waltz, sorprendente gruppo prog tricolore che approda con “Division By Zero” al traguardo del terzo capitolo sulla lunga distanza. La testimonianza di ambizioni legate ad un percorso intrapreso all’interno in un settore non certo tra i più agevoli e forieri di facili successi. La manifestazione di speranze che si saldano sulla certezza nei propri mezzi e nella forza del proprio talento.
Talento – va detto – unito a capacità tecniche da capogiro.
Caratteri rilevanti quelli in possesso dei Memento Waltz. Tanto significativi al punto da indispettire proprio per via della scarsa considerazione ottenuta sin qui, aspetto davvero delittuoso soprattutto se raffrontato a quanto pronto ad emergere dall’ascolto del nuovo album in studio, coacervo di influenze, spunti ed idee, degno dei maggiori esponenti del settore.
Il disco si presenta sin dalle prime occhiate nella veste di un curatissimo prodotto dal taglio ultra-professionale. Artwork decisamente elegante e confezione studiata nei particolari, lasciano piuttosto interdetti alla scoperta della propria natura “artigianale”.
Si fa, in effetti, davvero fatica a pensare questo “Division By Zero” come una “autoproduzione”: i dettagli, la cura e lo stile altamente raffinato, non sfigurerebbero affatto qualora sul retro copertina apparisse il logo di una grande label come Inside-Out.
Un profilo superiore che non tarda a manifestarsi nemmeno sul piano meramente musicale.
Quello dei Memento Waltz è un prog nervoso, instabile, spiazzante, carico di sfumature, complesso e “nauseabondo”. Un fiume di note che travolge, scompone, devasta e poi ricostruisce.
Spiral Architect, Head Or Tales, House Of Spirits, Zero Hour, Sieges Even, ma pure Wathctower, Death e tracce di Queensryche, costituiscono l’anima pulsante di un progetto musicale dall’essenza multiforme e sfuggente, a tratti compatta e levigata come l’acciaio, in altri frangenti dalla natura allucinata ai limiti della psichedelia.
In ogni caso, sempre e comunque carica di potenza d’espressione e grande personalità.
Non serve molto a Gabriele Maciocco e compagni, per dimostrare nuovamente la statura di una band eccellente.
Sette brani, duri, veloci e saettanti, affilati come lame circolari ed articolati con esuberanza di rifiniture, definiscono un percorso che per l’orecchio meno avvezzo a sonorità heavy prog (con qualche puntata ardita verso il free jazz) potrà apparire forse un po’ ermetico e dissonante, in virtù della miriade di cambi di tempo, variazioni d’umore e voli strumentali di cui ogni singolo brano appare intriso in profondità. Ma che appaga gli appassionati di prog nel senso più puro del termine.
Una lucida follia che, pur se lasciata libera di scorazzare su e giù per il pentagramma, non sembra mai prendere il sopravvento definitivo, rimanendo comunque ben imbrigliata entro i confini dell’intelligibilità e dell’umana comprensione.
I Memento Waltz, insomma, ancora una volta osano, “sbrodolano”, scalciano, “schizzano” e puntano verso le stelle: ma senza mai perdere un minimo di gusto per la melodia e per il potenziale d’ascolto. La “mappa” appare sempre e la sensazione di smarrimento dovuta al fiume di accordi profusi è piacevole e corroborante, ben lontana dall’idea sconclusionata di strutture musicali troppo auto-incensatorie e prive di costrutto.
In mezzo ad un bailamme di note infervorate, emergono tracce quali “Omicron”, brano iniziale che propone un ideale connubio tra Sieges Even e Watchtower, la straordinaria “Europa (Jupiter II)” ove apprezzare il cantato di Marco Piu, senza dubbio influenzato dalla drammaticità di mr.Geoff Tate, e la visionaria “Mechdreamer”, nervosissimo viaggio interstellare che accomuna influenze space al prog più teso ed irrequieto.
Tre esempi di eccellenza massima. Un trio di brani capace di definire, già di per se, la caratura di una band che, nelle sembianze del gruppo che si “autoproduce”, appare costretto e mortificato come il proverbiale leone rinchiuso nella gabbia di un canarino.
Il valore della produzione poi, non fa altro che confermare quanto di superlativo descritto sin qui: complicatissimo intendere il quartetto come l’embrione di una realtà alle prime armi.
Il confronto, messi insieme tutti i particolari, può reggere solo con i grandi.
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