Recensione: Division Hades
Provate ad immaginare se il galeone capitanato dai Running Wild andasse a scontrarsi in un impossibile frontale contro il carro da morto guidato dai Grave Digger: il risultato di questo fragoroso impatto potrebbe assomigliare molto da vicino alla proposta musicale dei francesi Lonewolf! La formazione transalpina infatti fin dai suoi esordi è dedita ad un heavy metal vecchio stampo con venature power, fortemente influenzato dalle band sopracitate e come dichiarato con orgoglio dal cantante e chitarrista Jeans Borner, tutto questo senza mai cedere a sperimentazioni durante l’arco della loro lunga carriera. Questi Lonewolf infatti ne hanno di anni sul groppone: formatisi nel 1992 a Grenoble, dopo un periodo gavetta ed alcuni demo, nel 2001 pubblicano il loro primo album March Into The Arena per giungere così nel 2020 con questo loro nuovo Division Hades, con il quale la band taglia il traguardo dei 10 lavori all’attivo, ricorrenza che i francesi intendono celebrare degnamente: l’album infatti altre al primo dischetto con le canzoni nuove ne comprende un secondo con una selezione di tracce tratte dalle produzioni precedenti e ri-registrate per l’occasione.
Il platter si apre con “The Last Goodbye“, un brano di sette minuti che parte lento e riflessivo per poi accelerare in una cavalcata epica con una ritmica sostenuta e le chitarre a macinare riff e assoli. Un attacco infuocato introduce la successiva “Fallen Angel“, un brano heavy roccioso con richiami ai Grave Digger dove dopo le martellate dei primi tre minuti, si ferma, poi riparte con un cambio ritmato ed esplode nell’assolo di chitarra per concludere nuovamente con il ritornello accompagnato da dei veloci riff. Stesso discorso per la title track “Division Hades“, un brano speed con un cantato epicheggiante arricchito da interessanti fraseggi e cambi di chitarra. Come si può facilmente intuire il disco si mantiene sulle coordinata dell’heavy power per tutta la sua durata, in Underground Warriors i Lonewolf si rivolgono ai cultori del metal più incontaminato: quelli che vedi in giro con pantaloni attillati e chiodo borchiato anche con i 35° del sole di luglio per intenderci. La canzone è un heavy metal veloce con un ritornello anthemico accompagnato da vari riff e fraseggi di chitarra che si inseguono. Procedendo con l’ascolto dell’album la compagine francese continua a grondare note di metallo fuso con il leader Jens Borner che insieme al redivivo Damien Capolongo, rientrato in formazione dopo dieci anni di assenza, si divertono a far fumare le corde delle rispettive chitarre con riff taglienti e assoli funambolici. “Alive” con le sue ritmiche in doppia cassa ci porta su territori più power dove sembra quasi di sentire una versione più aspra e grezza della quasi-omonima canzone degli Helloween, mentre con “Lackeys of Fear” si torna ad attingere dal calderone dei Grave Digger con un susseguirsi di ritmiche serrate come mitragliatrici, rallentamenti, assoli e linee vocali ruvide come la carta vetrata. La divertente “Manilla Shark” è dedicata invece a Mark “The Shark” Shelton cantante e chitarrista dei Manilla Road, una tra band capostipiti dell’epic metal, deceduto il 27 luglio 2018 dopo un esibizione all’Headbangers Festival e una settimana prima dello show al Waken Open Air in quello che è stato di conseguenza l’ultimo tour dei Manilla Road. Quando si dice una vita on the road fino all’ultimo…
Le bordate di batteria del drummer Bubu Brunner fanno la parte del leone nella powereggiante “Silent Rage“: un’altra mazzata tra capo e collo che ricorda qualcosa degli Hammerfall oltre che dei già citati Running Wild. “Drowned In Black” invece è la lunga suite che conclude il disco: la track si apre con un inizio soft per poi evolversi in una cavalcata dalle tonalità epiche con molti richiami agli Iron Maiden oltre che ai soliti Running Wild. Come già negli altri brani del disco anche quest’ultimo nei suoi nove minuti di svolgimento mette in mostra vari cambi di riff, rallentamenti e ripartenze e qualche atmosfera folk nella parte conclusiva.
Division Hades in conclusione è una valanga di metallo pesante ben equilibrato fra heavy metal classico e incursioni in campo power dove dei bei giri di chitarra si intrecciano con il muro di una sezione ritmica rocciosa, il tutto con una buona qualità e pulizia del suono. Quello che suscita a volte qualche perplessità però è la voce del chitarrista e cantante Jens Borner: il suo modo di cantare, molto simile a quello di Chris Boltendahl dei Grave Digger non sempre riesce ad essere convincente, in più occasioni si accanisce troppo a voler fare il “vocione metallico” a tutti i costi finendo col sembrare uno scimmiottamento di colleghi come il già citato Boltendahl o Udo Dirkschneider. Questo impoverisce la qualità delle composizioni specie per quanto riguarda le linee vocali che talvolta paiono presentarsi in maniera un po’ approssimativa, più per il desiderio di conferire spigolosità ad ogni passaggio che per mancanza di esperienza. Non che ciò comprometta in maniera inesorabile il risultato finale, ma con un cantato più appropriato il punteggio avrebbe potuto essere più alto.
Division Hades è correlato di un secondo cd contenente brani tratti dai vecchi lavori della band, qualcuno addirittura dai primi demo, ri-registrati per celebrare le dieci prove discografiche della lunga carriera dei Lonewolf. Anche per questo lavoro il giudizio resta in linea con quanto già detto per il primo cd. Fra le varie composizioni vorrei segnalare: “The Forgoten Valley Of Hades“, “Whitch Hunter” e “Sorcery“. Division Hades può dunque essere una buona occasione per conoscere in un sol colpo i Lonewolf di oggi e di ieri.