Recensione: Do nothing till you hear from me
A tutta prima questi The Mute Gods hanno molto di già sentito, e non deve stupire. Si tratta infatti di un super trio composto da multistrumentisti i cui nomi sono ben noti a chi bazzica il macrocosmo progressivo. Nick Beggs (Steven Wilson, Lifesigns), Roger King (Steve Hackett) e Marco Minnemann (Joe Satriani), nomi che dunque si sono già sentiti altrove, e le cui virtù artistiche hanno contribuito a dare peculiarità a tutti i vari artisti che ne hanno fatto uso. I tre dunque hanno deciso di fondersi nei Mute Gods, e a dare vita ad una prima opera intitolata Do nothing till you hear from me, edito, ça va sans dire, dalla onnipresente major del prog, la Inside Out, in cui spiccano diverse collaborazioni illustri.
Ne vengono fuori 9 tracce, 11 nella versione con bonus track, di prog molto, molto, molto leggero ed orecchiabile. L’impronta principale sembra essere quella di Steven Wilson, il Wilson dei Porcupine tree mano metal e più progressive rock di album come Stupid dream o In absentia, con chitarre e tastiere estremamente liquide e strascicate, per un risultato davvero accattivante.
Le prime tre tracce, la groovosa Do nothing till you hear from me, la (vagamente) Praying to a mute god e soprattutto la stupenda e sognante ballad Nightschool for idiots sono davvero ben fatte, piacevoli e coinvolgenti. Non presentano nulla di particolarmente innovativo, ma mettono bene in mostra le abilità tecniche dei tre e le relative, smisurate, capacità di songwriting. In parole povere, tre musicisti che danno vita ad un progetto parallelo in cui dar sfogo alla loro verve creativa, per un risultato ispiratissimo.
Altri notevoli risultati con Feed the troll and Your dark ideas, che dirottano l’album verso il prog più acido e cerebrale, prima che la bonus Last man on earth, altra saporita ballad, ci conduce alla seconda parte dell’album. Qui la freschezza delle prime tracce va un po’ perduta, sembra di trovarsi in mezzo ad un album dei Flower Kings, o meglio, in qualcosa di simile e molto meno prolissa dei Flower Kings che pur tuttavia non riesce a trovare la quadratura del cerchio. Si tratta forse di un eccesso di cerebralità, o magari di atmosfere poco afferrabili o semplicemente del contrasto con la semplice ed immediata prima metà d’album. Fatto sta che le ultime tracce, se escludiamo alcune aperture sognanti in swimming horses e nella meravigliosa, conclusiva (e tragicamente debitrice di Wilson) Father daughter, le ultime tracce non scorrono particolarmente fluide.
Tenendo conto degli impegni dei singoli artisti coinvolti, è difficile prevedere gli sviluppi futuri dei Mute Gods. Do nothing till you hear from me risulta nel complesso un bel disco e un disco molto buono per tutti gli amanti del prog, ma è difficile capire se si tratta di un piacevole interludio nelle carriere dei nostri o di un’idea destinata a durare nel tempo. Mettendo sui piatti della bilancia i pro e i contro, l’ispirazione e la derivatività, l’immediatezza e il pantano psychedelico, in ogni caso, viene da sperare che i Mute gods siano nati per tornare.