Recensione: Dodsdans
Il progetto acustico Galaverna è una creazione del musicista veronese Valerio Wílly Goattin, già chitarrista e cantante di band innovative del panorama underground italiano come Anteo, Riul Doamnei ed ora negli spagnoli Slap Guru. Lo passione per il progressive degli anni ‘70, per il folk nordico e per la sperimentazione gli hanno fatto intraprendete un nuovo percorso artistico, acustico, ricco di richiami all’immaginazione visiva e alla dimensione onirica. Il moniker non lascia spazio a dubbi: il termine è probabilmente il composto di caligo ‘nebbia’ (da cala, di origine germanica) e del latino hibernus ‘inverno’, ma anche ‘gelo’. L’artwork non a caso ritrae un curioso sabba scheletrico in un Cocito inospitale, ma anche intrigante, con una volta stellata da urlo. L’album s’intitola, inoltre, Dodsdans (danza della morte) ed è un concept che racconta per capitoli le avversità che un uomo deve superare per sopravvivere in un contesto assolutamente inospitale. Allo stesso tempo viene esaltata la bellezza, lo magia di lande desolate e di uno natura tonto crudele quanto affascinante nella sua purezza. Goattin, dunque, ha le idee chiare e propone musica per palati fini.
Le prime due brevi tracce, a formare una titletrack dimidiata, hanno il pregio d’immergere subito l’ascoltatore in un paesaggio sonoro essenziale e misterioso. I ritmi sono compassati, le linee di basso pulsanti, si respira un’aria arcana di gelo e fascino. Peccato per la voce di Goattin, un filo monocorde, un plauso va invece al flauto di Giulio De Boni, che rischiara un cielo oscuro. “Cerberus” ricorda vagamente il sound dei Camel (ripreso anche dagli Opeth che furono e che sono) e nella seconda parte la viola suonata da Lorenzo Boninsegna impreziosisce un sound che lavora sulla sottrazione, più che sull’horror vacui. A tratti vengono in mente anche i Blackmore’s Night folk. Ancora tinte crepuscolari per “Sweet Annika”, mentre in “Smell of Ember” i ritmi si fanno appena più scoppiettanti, con la presenza di alcune discrete chitarre elettriche e rullante. Un pezzo che più settantiano non si potrebbe. Dopo le braci, le ceneri. È la volta della falotica “Burning Ashes”: ancora valida la sezione strumentale, le linee vocali, invece, risultano poco valorizzate. Inizio a cappella per “Mother’s Leaving”, tra i momenti migliori dell’album. Un perfetto equilibrio tra sentimento, pacata rassegnazione e cenni folk. L’album si chiude con i quasi nove minuti di “Uppvaknande” (‘risveglio’ in svedese), i primi cinque strumentali, nei quali si viene traghettati dolcemente, i restanti solo con voce-chitarra-pianoforte. La dodsdans è conclusa, resta solo silenzio e una sensazione di gelo rinfrancante.
I Galaverna in definitiva regalano un platter per intenditori, nostalgico e sagace, centrato sulla ricerca di un’identità sonora suggestiva e un filo inquietante, che ricorda (giusto per citare un gruppo nordico) quella dei Green Carnation in The burden is mine. Se ci fosse stata la presenza di un cantante di livello, l’album sarebbe stato un piccolo masterpiece.
Roberto Gelmi (sc. Rhadamanthys)