Recensione: Dog Eat Dog
Pino Scotto è un personaggio che, da sempre, divide. Ma è anche vero che lo stesso ex cantante dei Vanadium nonché anchorman televisivo sia un soggetto imprescindibile della scena hard rock ed heavy metal italiana. Ammesso che di scena si possa parlare, alle nostre latitudini, ove la logica del campanile, o peggio ancora dell’orticello, ha dettato legge sin da quando le prime formazioni di rock duro – si chiamava così, ai tempi… – sia affacciarono all’interno del sonnacchioso panorama nazionale, perennemente sull’attenti in occasione della new sensation neomelodica ma con l’endemica puzza sotto al naso per qualsiasi cosa facesse “rumore”, nella fattispecie una chitarra elettrica a un volume degno.
Pino Scotto fu uno degli artefici di quel piccolo miracolo tricolore che portò ad avere un buon seguito lungo gli anni Ottanta e anche i successivi, da parte del pubblico nostrano. Prima con i Pulsar e poi con i Vanadium l’ex magazziniere a libro paga di una ditta farmaceutica di Milano di strada ne ha fatta, e parecchia. Nemmeno la via dell’autodistruzione, che aveva intrapreso dagli albori e che ha supportato e sopportato fieramente sino al crepuscolo del 2015 è riuscita a metterlo KO, parafrasando il titolo di un suo album del 2012. Giuseppe Scotto di Carlo viaggia di questi tempi sulla settantina e, dopo decenni di battaglie, merita il rispetto di tutti coloro i quali abbiano presente cosa voglia dire fare hard rock ed heavy metal in Italia. Poi si può essere d’accordo o meno con quanto asserisce Pino, ci mancherebbe pure…
Dopo tutto ‘sto pistolotto atto a inquadrare il personaggio, è il momento di addentrarsi lungo le dodici tracce del fiammante Dog Eat Dog, la sua ennesima nuova fatica discografica. Ad accompagnarlo Steve Volta (chitarra), Leone Villani Conti (basso), Federico Paulovich (batteria) e Mauri Belluzzo alle tastiere.
Il disco si dimena per quasi un’ora di musica, attraverso un po’ tutte le correnti e le passioni che hanno accompagnato Pino Scotto nella sua lunga milizia. Vi sono ammiccamenti al blues, al rock’n’roll, al progressive e al “semplice” rock il tutto edificato su solide impalcature hard, senza farsi mancare talune tracimazioni nell’heavy.
La voce di Pino Scotto, col trascorrere degli anni, assommata alle milionate di Lucky Strike che s’è pippato, ha evidentemente perso di penetrazione, nonostante abbia acquisito un quid di più in profondità. Ed è il motivo principale per il quale le prime “passate” del disco non impressionano lo scrivente: l’interpretazione spesso monocorde, il cantato in un inglese sin troppo scandito e la versione dell’attesissima “Don’t Be Looking Back”, unica cover del glorioso passato al vanadio, qui ripresa a furor di popolo, speculare all’originale. Con una line-up siffatta un pezzo del genere, per moltissimi ultras dell’HM italiano il picco artistico dei Vanadium, avrebbe quantomeno dovuto segnare una differenza a livello di potenza di fuoco espressa, senza ovviamente discostarsi dalle linee guida primigenie! De gustibus non est disputandum…
La deontologia di ogni recensore che si ritenga tale impone però l’approfondimento, il riascolto, prima dell’emissione di un parere, di qualsiasi e genere e tono esso sia. Ecco quindi che l’ultimo nato in casa Scotto, avendogli fornito la possibilità, cresca ascolto dopo ascolto. Certo, senza avvicinarsi alle vette del tempo che fu, ma guadagnandosi i galloni di un onesto e verace disco di hard rock. Fra i brani che spiccano senza dubbio compaiono la toccante “Before It’s Time To Go” (la canzone migliore di Dog Eat Dog, per lo scriba), il tributo alla Pfm “Dust To Dust”, poi “Ghost Of Death” dal vago andamento a la Motörhead. Ad aprire l’album l’azzeccata “Don’t Waste Your Time”, pezzo che riporta ai fasti dei Vanadium.
Stefano “Steven Rich” Ricetti