Recensione: Dominion
Esistono delle leggi non scritte nel rock, quasi scolpite epicamente nella roccia da fulminanti solo di chitarra elettrica.
Una di queste, tramandata sin dagli anni 70, vuole che il terzo lavoro sia quello cruciale, dopo aver stupito con il primo e confermato con il secondo, è appunto il terzo disco che ha sempre decretato lo status di una band, status che, se ben gestito, le permetterebbe potenzialmente di proseguire la carriera, forte di uno zoccolo duro di fan ormai affezionati.
Valutiamo infine l’influenza di manager, produttori e tutte le persone che ruotando nell’orbita di un gruppo, ne condizionano inequivocabilmente l’opera prima, spesso, solo la fotografia sbiadita e sfocata della reale identità.
Forse è davvero corretto quello che è impresso virtualmente su quella roccia. Forse davvero è il terzo disco, quello della maturità.
Eccoci qui a parlare dunque, dei Benedictum, la band di San Diego capitanata dalla prorompente Veronica Freeman, già autrice di due precedenti CD: ”Uncreation”, del 2006 e “Seasons Of Tragedy” pubblicato a distanza di due anni dal folgorante debutto.
“Dominion”, questo il nome del terzo capitolo, si presta quindi ad essere il manifesto e al contempo il passo più importante per il quintetto californiano.
Dopo averlo ascoltato diverse volte ammetto d’essere ancora titubante. Il dubbio principale è dato non dalla qualità, che possiamo anticipare essere comunque elevata, ma dalle sensazioni contrastanti evocate da questo lavoro.
La band è un sunto, un Bignami, un piccolo compendio di tutto il metal (sopratutto americano) suonato ed ascoltato dagli anni 70 ad oggi: dal prog settantiano al thrash metal, passando dagli Anthrax ai Vicious Rumors, dai Crimson Glory ai Nevermore. Una sorta di tributo al metal tutto: mancanza di personalità o semplice devozione e capacità di riproporre ciò che si è appreso dai maestri?
Proviamo a comprenderlo insieme premendo il tasto “play”.
L’opening/title track, ci investe con una valanga di lamiere di metallo incandescenti, riff stoppati, una batteria “suonata” e non solo percossa ed una voce, quella di Veronica, che non può lasciare indifferenti, rivelandosi la vera “arma X” del gruppo.
I Benedictum sono l’antitesi delle “female fronted band” in ambito heavy metal/classic/power: una voce che trasuda potenza e testosterone (???), una sorta di versione femminile di Ronnie James Dio con una versatilità davvero da applausi.
“At The Gates”, sembra estratta da quella bibbia del metal che risponde al nome di “Painkiller”, ovviamente riletta in chiave Benedictum, con massicce dosi di tastiere (sempre e comunque atte a creare atmosfera e “riempire” il suono, raramente utilizzate come strumento solista) e un devastante solo di chitarra (lanciato da un urlo belluino della nostra “graziosa” Veronica) ad opera di un ispiratissimo Pete Wells.
Ottima la terza traccia: una “Seer” che non so per quale motivo mi evoca i Queensryche, ovviamente imbastarditi con potenti dosi di Dio e massiccio metal americano.
“Grind It”, sembra una versione ipervitaminizzata e ultra-accellerata di un brano degli Alice in Chains, dove, come sempre, a farla da padroni sono la voce di “Veronico” e la chitarra di Wells.
Prosegue su standard elevati l’ascolto di questo atteso comeback, con un piccolo intermezzo melodico concessoci dal breve stumentale “Beautiful Pain”.
Solo il tempo di tirare il fiato e la nostra pettoruta valchiria borchiata ci salta ancora alla gola con due pezzi da novanta quali “Dark Heart” ed il potenziale singolo “Bang”.
Impressionante la convinzione, l’intenzione, con le quali la cantante californiana attacca ogni singola nota, dandoci davvero la sensazione che voglia eliminare ogni ostacolo utilizzando la sua ugola letale e foderata di adamantio di “wolveriniana” memoria.
Interpretazione maggiormente rilassata ma non meno intensa, quella fornitaci nel brano “Loud Silence” con un Pete Wells ancora sugli scudi.
Chiude “ufficialmente” il disco, una discutibile “Epsilon”.
Il brano potrebbe vincere il premio per l’introduzione più utilizzata, sentita, scontata del 2011, salvo poi riprendersi con una struttura avvincente, decisamente progressive, la voce di Veronica che sale in alto (per i suoi standard ovviamente) a sorvolare i soli malmsteeniani di Wells e un sapiente uso di effetti e di tastiere, atti a creare un’atmosfera ed un groove davvero affascinanti.
Un pezzo che, nonostante la sua lunghezza (quasi nove minuti) e ripetiamo, un incipit poco felice, si lascerà riascoltare ben volentieri.
Prima bonus track con un ottimo brano lento: “Sanctuary”.
Chitarra acustica, voce e splendidi assoli. Abbiamo tutto, forse anche qualche minuto di troppo.
A suggellare e confermare la loro vena progressive, la band statunitense tributa i canadesi Rush con “Overture/The Temples Of Syrinx”, qui riproposta in una splendida versione.
Concludendo, possiamo affermare senza paura di essere smentiti, che il disco si candida ad essere una delle uscite migliori in questo pur giovanissimo 2011, fornendoci formalmente tutto ciò che potremmo chiedere: chitarre potenti, solo tecnici e memorizzabili, sezione ritmica tritaossa, voce devastante e una buona dose di progressive rock, buono nel rendere l’ascolto mai scontato e sempre interessante.
Partecipano a questo “Dominion”, in veste di ospiti: Craig Goldy, Jeff Pilson e Rudy Sarzo.
Esiste ad ogni modo un “ma…”.
Alla band manca ancora un ingrediente, un qualcosa di (per ora) non identificato che la proietti nel firmamento delle star del metal. Il gruppo sembra una pentola a pressione, che fischia e minaccia di esplodere, sfornando si, un ottimo pasto ma deludendo coloro che aspettavano invece la tanto temuta e al contempo bramata esplosione.
Un ottimo disco che poteva essere stupendo.
Chi si accontenta gode…io non mi accontento. Voi?
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Tracklist:
01. Dominion
02. At The Gates
03. Seer
04. Grind It
05. Prodigal Son
06. The Shadowlands
07. Beautiful Pain
08. Dark Heart
09. Bang
10. Loud Silence
11. Epsilon
12. Sanctuary (Bonus Track)
13. Overture/Temple Of Syrinx (Bonus Track)
Line Up:
Veronica Freeman – Voce
Pete Wells – Chitarre
Chris Shrum – Basso
Mikey Pannone – Batteria
Tony Diaz – Tastiere