Recensione: Dominion

Di Matteo Orru - 3 Settembre 2019 - 0:01
Dominion
Band: Hammerfall
Etichetta:
Genere: Heavy 
Anno: 2019
Nazione:
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72

The Templars are back on the street

Il 2019, tra tutti gli illustri ritorni segna pure quello dei templari svedesi puntuali come non mai a timbrare il cartellino; ma cosa aspettarci da un disco intitolato Dominion con in copertina un guerriero dall’aria poco raccomandabile avvolto tra le fiamme?  Ovviamente una bordata di metallo classico europeo che lentamente sta abbandonando le venature più power degli esordi per radicarsi sui classici lidi hard n’heavy tanto cari ai maestri teutonici Accept, suonato in maniera impeccabile grazie all’assodata esperienza dei cinque defenders borchie e pelle.
Una risposta che tende sul generico, indubbiamente, ma che lascia presagire come da consuetudine in ogni disco targato Hammerfall, un ottimo compromesso tra velocità ed inni marziali, grandi ritornelli da cantare a pugni al cielo con liriche tendenti all’immaginario fantasy e che sottolineano la volontà di tenere la fiamma del vero metallo sempre accesa.
Come ogni disco degli templari che si rispetti questi sono regolarmente gli ingredienti presenti in maniera cospicua, cambia soltanto, anno dopo anno, la formula, ossia quanto di questi ingredienti viene versato nel calderone e mescolato sapientemente dalle mani dei due mastermind, Oscar Dronjak e Joacim Cans ai quali si aggiunge il sempre presente e tutto fare maestro della sei corde, produttore e ingegnere del suono (ma non con gli Hammerfall stessi) Pontus Norgren.

C’è da dire che l’approccio con Dominion non è stato uno dei più semplici. E chi questa volta dovesse aspettarsi il classico disco diretto, con cori che si stampano in testa al primo ascolto, la strada potrebbe essere non del tutto quella giusta. Ovviamente stiamo parlando degli Hammefall, impensabile che producano un disco senza i loro elementi distintivi che li han resi famosi in tutto il globo, ma questa volta l’equilibrio viene spostato su altri territori più di ogni altra volta nella loro carriera.
Dominion è il classico disco ben suonato che al suo interno ha tutte le carte in regola per far felici sia i fan della prima ora così come nuovi adepti che si stanno avvicinando alla band, grazie alla sua track list ben bilanciata tra pezzi più tirati e mid tempos dove largo spazio viene lasciato soprattutto alla parte strumentale a leggero discapito di quegli anthem che di solito sono presenti in abbondanza su ogni disco.

Già dai due singoli estratti, la classica e irriverente “(We Make) Sweden Rock”, vero e proprio tributo alla scena rock e metal svedese, dotata di un riff dannatamente heavy e un ritornello di immediata assimilazione, e la title track, un’autentica sassata dalle basi hard rock ma pesante come un macigno, si notava che la direzione della band virava leggermente rispetto al riuscito predecessore del 2016, Built to Last.
In effetti dopo tanti e attenti ascolti l’impressione finale è stata che Dominion è un buon disco ma gli manca qualcosa, quel qualcosa che lo innalzi allo status di grande disco. Tranne che in sporadici episodi, all’album mancano i “grandi pezzi”, dotati dei classici ritornelli che ti fanno diventare un brano da bello a “hit” oppure ricoprire il ruolo di “classico”. Questa lacuna non da poco in gran parte è stata colmata da una performance dei Nostri d’altissimo livello con una componente solistica che va menzionata a parte visto il grandissimo lavoro di Nogrgen così come il drumming di David Wallin che nella sua linearità è ossuto e forte creando con il fido Fredrik Larsson una base ritmica di ghisa inscalfibile.
Analizzando la track list ci troviamo di fronte a un equilibrio tra alcuni ottimi pezzi e gli altri che ricoprono il ruolo di buoni brani o poco più di fillers.

L’apertura con “Never Forgive, Never Forget” è il classico inizio da retrogusto amaro, grandioso intro con arpeggio da spade e scudo in mano che lascia spazio a un riff affilato ma che scema in un ritornello da dimenticare, scialbo e fiacco. Peccato peche solitamente l’opener è il classico abito buono che un rappresentante indossa per svolgere il suo lavoro, e se l’abito fa il monaco.
La title track la conosciamo tutti  e il suo riff di matrice puramente hard rock che sfocia in uno dei più bei ritornelli del disco da spazio a Testify, song emblema del disco, grande riff di scuola classica che invoglia l’headbanging più sincero che si perde in un ritornello privo di ispirazione al limite del banale.
Se qualcuno dovesse ascoltare unicamente queste prime tre tracce l’istinto sarebbe con tutta probabilità quello di spegnere tutto e rimettere sul piatto un Legacy of Kings a caso, ma noi siamo ottusi e vogliamo vedere la luce in fondo al tunnel e infatti One Against the World è li che ci aspetta.
La song, già presentata nelle date estive del tour, è un mid tempo epico ed evocativo dove finalmente i cori fanno da padrone e riuscirà senza dubbio fare felici i fan della prima ora grazie alla sua ritrovata ispirazione guerrafondaia.
Se “(We Make) Sweden Rock” non ha bisogno di presentazioni, la doppietta composta da “Scars of a Generation” e “Bloodline” è di sicuro la vera e propria manna dal cielo in questo Dominion. La prima una vera e propria tempesta di metallo e doppia cassa con un Cans sugli scudi che si presenta con il suo primo acuto in apertura di una song in ventidue anni di carriera e, finalmente, un gran ritornello che ci fa fare un balzo indietro nel tempo tanto che non sfigurerebbe sui dischi della prima metà del 2000; mentre Bloodline è forse il miglior pezzo di tutto il platter grazie non solo a un riff d’acciaio diretto in faccia e il riuscitissimo ritornello anthemico ma soprattutto per il break corale che fa schizzare in aria spade e scudi di noi difensori della fede.
Tempo di autocitazione per “Dead by Down” che sia nel main riff che nell’attacco del ritornello ricorda più che vagamente la seminale “Riders of the Storm” direttamente dallo storico Crimson Thunder ma che, per forza di cose, non ha il medesimo impatto e si sposa egregiamente con l’appellativo di filler riuscito ma nulla di più così come per “Chain of Command”, più classicamente heavy ma che nulla aggiunge all’ormai vasta discografia della band relegandosi un elegante posto nel dimenticatoio nel giro di brevissimo tempo.
Completano il lotto la ballad pianistica “Second to One”, lontana anni luce dalle ballad dei primi lavori che risuonano indelebili nei nostri cuori di acciaio, e “And Yet I smile”, power ballad la quale strofa sembra sia uscita dalla penna della premiata coppia tedesca Meine-Shenker, decisamente più piacevole e ispirata rispetto alla prima.
Una menzione a parte merita la produzione di questo disco che di sicuro non avvalora la performance della band risultando eccessivamente patinata e compressa, nonostante non sia eccessivamente modernista ma comunque di una piattezza disarmante che annienta la dinamicità di qualsiasi strumento (tranne la batteria in occasione esclusivamente di alcune rullate) rendendo quasi fastidiosa l’eccessiva pulizia dei suoni. Qui si parla di metallo classico che fonda le sue radici negli anni ottanta e novanta e questa accuratezza snatura l’atmosfera del disco e ne dimezza la potenza barbara che dovrebbe sprigionare.

Dopo decine di ascolti Dominion si presenta come un disco maturo e suonato con tanto mestiere, che ha tra i suoi punti di forza quelli di mostrarci una band che sa scrivere ancora buonissime canzoni con una struttura leggermente differente da quella solitamente adottata basando le proprie energie sul riffing più che sui soliti ritornelli da stadio di facile assimilazione, ma al contempo una set list dove non è presente neppure una vera e propria hit che lascia presagire il classico calo di ispirazione.
Gli Hammerfall hanno ancora tantissimo da dire e l’olimpo dell’hard n’heavy, almeno per i prossimi dieci anni sarà sicuramente il loro, più che per merito, anche se questo è innegabile, per mancanza di vere e proprie alternative di Act simili. La band deve comunque scongiurare il rischio di adagiarsi troppo sugli allori meritevolmente conquistati in oltre vent’anni di carriera e continuare a fare ciò che sa fare meglio. Heavy Metal. Dagli Hammerfall pretendiamo sempre il massimo.

 

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