Recensione: Dominion VIII
Tutti, ma non loro: tutti gli inventori del death metal svedese hanno più o meno modificato il loro suono nel corso degli anni, deragliando addirittura verso generi completamente diversi, ma i Grave si rifiutano di farlo, e a questo punto è un bene che sia così; anche se a volte, come in questo caso, il risultato è buono ma non perfetto. Dal momento della “presa del potere” in line-up di Ola Lindgren, prima solo chitarrista, all’inizio degli anni ’90 e dopo i primi 3 album, il destino del gruppo è stato incerto, con risultati altalenanti e addirittura un temporaneo scioglimento. Ma col revival del death svedese che sussiste da qualche anno, anche loro hanno potuto godere del meritato successo di pubblico.
Rispetto al’ottimo As Rapture Comes, però, qualcosina si è afflosciata, dall’ispirazione a certe scelte in fase di produzione, e le sonorità risultano meno potenti e brillanti che un paio di anni fa, quando sottolineavamo come l’album in questione portasse il “death svedese nel nuovo milllennio”. Attacchi come quello, clamoroso, di Burn, opener di quell’album, qui non ci sono, e in generale Dominion VIII risulta essere uno degli album più cupi e “fangosi” della loro carriera, con una tonalità dark da far impallidire certe cose dei primi anni ’90. Una batteria basilare, con suoni piattissimi, fa da impalcatura per una serie di canzoni feroci, e non per questo veloci, e dirette alle ossa dell’ascoltatore.
Quando si cerca la coerenza con uno stile, consolidandolo ad ogni uscita senza per questo cambiarne i connotati, bisogna affidarsi semplicemente ai riff, anzi, bisogna trovare il riff: e in Dominion VIII i Grave lo fanno purtroppo solo a sprazzi, come nel riff introduttivo e in quelli portanti di 8th Dominion; il resto rimane fedele, fedelissimo alla formula che vede gli Autopsy risorgere nel suono a motosega, con l’aggiunta di elementi Discharge e thrash primordiali… insomma, i fondamenti del death svedese più marcio: il che è sintomo di coerenza e garantisce anche in questo caso qualità, ma non basta da solo a reggere un’intera tracklist.
Ecco, forse questo è l’album moderno dei Grave che più si avvicina allo storico Into the Grave: anzi, se non fosse per la voce di Lindgren, decisamente diversa da quella di Jörgen Sandström, in certi passaggi sarebbe quasi possibile confondersi. Il problema restano i cali di tensione, ma l’oscurità che striscia tra i solchi (sì, i solchi) di questo disco riuscirà ad avvilupparvi lo stesso a dovere.
Alberto ‘Hellbound’ Fittarelli
Tracklist:
1. A World In Darkness 05:58
2. Fallen (Angel Son) 04:56
3. Deathstorm 04:33
4. Stained By Hate 04:10
5. Bloodpath 03:34
6. Annihilated Gods 05:12
7. Sinners Lust 03:55
8. Dark Signs 04:16
9. 8th Dominion 07:34