Recensione: Domino
I Sinheresy arrivano da Trieste e, molto probabilmente, sentiremo parlare spesso di loro in futuro. Il sestetto, infatti, con il nuovo lavoro Domino, pur non riuscendo a creare una Pietra Filosofale, riesce comunque a combinare quelle formule alchemiche in grado di mettere d’accordo un po’ tutti, proponendo un moderno symphonic power metal con sfumature prog e gothic. I Sinheresy tornano sulle scene a quattro anni di distanza dal debutto Paint the World e con Domino mettono in atto un’evoluzione e una certa progressione compositiva rispetto all’esordio.
Entrando nel dettaglio, Domino si apre con la title track. Un inizio molto aggressivo, dove i Sinheresy mostrano i muscoli sfoggiando un pesante riff di chitarra. Proprio l’appesantimento del sound, assieme alla voce del bravo Stefano Sain, che sembra avere molto più spazio rispetto al passato, diventano uno dei maggiori pregi del nuovo lavoro. Avendo più parti a propria disposizione, Sain mette in mostra il proprio valore, arricchendo e ampliando la proposta musicale dei Nostri. Il brano assume delle sonorità progressive alla Symphony X, riuscendo però a mantenere quel tipico sound symphonic power che li ha caratterizzati finora. Con la seconda traccia, Star Dome, il discorso fatto con il brano d’apertura non cambia. Anzi, la front woman Cecilia Petrini qui fa ufficialmente da seconda voce al collega maschile. Musicalmente viene ampliato anche il sound progressive e, senza risultare invasive, si aggiungono alcune componenti elettroniche. Il ritornello, con la doppia voce e le atmosfere gotiche, richiama alla mente i Lacuna Coil. Dopo un inizio molto aggressivo incontriamo Without a Reason, un mid-tempo dal ritornello malinconico e atmosfere soft in cui la voce di Cecilia Petrini torna protagonista, accompagnata dalla marcata presenza delle tastiere di Daniele Girardelli. Tocca poi al singolo My Only Faith, uscito per promuovere l’album con tanto di video musicale ad accompagnarlo. Beh, qui nascono le prime perplessità. D’accordo che il singolo ha il compito di “attirare” l’ascoltatore con la sua immediatezza e orecchiabilità, ma la scelta di proporre un brano in cui si alternano linee vocali melodiche ad altre al limite del rap, creando un mix molto esplicito tra Evanascence e Linkin Park, non convince a pieno. Soprattutto quando una proposta del genere ha poco a che fare con il resto dell’album e, nonostante questo sia un bene, potrebbe comunque fuorviare un nuovo ascoltatore. Dopo questa piccola ingenuità, giungiamo alla parte migliore del disco con Unspoken Words. Un brano con un incipit epico e molto evocativo che avrebbe meritato di essere posto in apertura di questo lavoro, sia per il suo incipit maestoso che per il resto del brano che rappresenta l’aspetto migliore della band. Un ottimo intreccio dei due singer, epicità e potenza del sound con melodie ricercate e mai banali. Complimenti. Discorso analogo per Under Your Skin, dove, pur non spiccando per originalità, richiamando alla mente gruppi come Amaranthe e Delain, mettono in mostra una ricetta ben riuscita. Si percepisce che la band si trova a proprio agio con questo tipo di brani. Il nostro viaggio continua portandoci all’inevitabile ballata The Island of Salt and Grass dove, come di consueto in quest’ultimo platter, troviamo la voce maschile ad aprire il brano, accompagnata da una bellissima e delicata melodia di pianoforte, seguita poi dall’ingresso della voce femminile. La seconda parte della track alza i ritmi, trasformandosi in un mid-tempo con tanto di riff di chitarra di Lorenzo Pasutto e l’immancabile componente classica. In questo capitolo i due singer si esprimo su alti livelli e, paradossalmente, questo aspetto porta a un ragionamento critico: Cecilia Petrini, pur avendo un ottimo timbro e un’intonazione impeccabile, fatica a trasmettere emozioni, risultando un po’ troppo lineare e quasi inespressiva, eccezion fatta per brani come The Island of Salt and Grass. Basandomi su tale affermazione, mi azzardo a supporre che la scelta di dare più spazio a Stefano Sain, decisamente più espressivo e coinvolgente, sia stata una mossa voluta e sicuramente vincente. Il tutto, infatti, sembra sensato nel percorso creativo scelto dai Sinheresy, dove la voce maschile risulta protagonista e la delicatezza di quella femminile la accompagna in un viaggio che vuole essere ricco di atmosfere gotiche, cupe e con sfumature sinfoniche. Le osservazioni mosse alla cantante assumono così una minore rilevanza, considerando il progetto intero e la professionalità mostrata dal sestetto triestino. Proseguendo l’ascolto, incontriamo Ocean of Deception, un brano heavy, veloce e diretto. La presenza di cori epici dona un’atmosfera molto coinvolgente e trascinante a un brano molto ben riuscito, che strizza l’occhio a nomi come Nightwish e Epica. Notevole la prova alle percussioni di Alex Vescovi e di Davide Sportiello al basso. Tale performance sottolinea la qualità e la bravura di tutta la band, un dato assolutamente non trascurabile. Intravediamo la fine del viaggio con Believe, un brano calzante, orecchiabile ed immediato, che, a parer mio, sarebbe stato un ottimo singolo al posto della controversa My Only Faith. Il nostro viaggio termina con … Another Life, brano concepito per la chiusura di questo lavoro. Una soave e breve ballata acustica dove troviamo come unica protagonista la cantante Cecilia Petrini, che ci conferma, una volta in più, di trovarsi maggiormente a proprio aggio con questo tipo di tracce, portando a casa un’ottima prova.
È giunto il momento di tirare le somme e, come avrete notato, ho volutamente paragonato i triestini con altri gruppi più conosciuti, che propongono sonorità più o meno simili a quelle dei Sinheresy. Queste comparazioni hanno due chiavi di lettura che provo a spiegare meglio. Di positivo si evince una continua ricerca di sonorità e di stile, combinando anche elementi differenti tra loro, per riuscire a creare una propria identità, possibilmente inedita o quantomeno originale. In secondo luogo, tali inevitabili paragoni, possono risultare un limite per i Sinheresy, con il rischio di essere catalogati come l’ennesima band “non male”, soprattutto considerando la concorrenza che la scena internazionale mette sul piatto. Il che affiderebbe il destino della band più alla bravura delle case discografiche e alla loro capacita di distribuzione e pubblicità, che all’effettiva, e in questo caso innegabile, bravura del gruppo stesso. Insomma, devono sbrigarsi a trovare la propria identità il più presto possibile, per non perdere il treno che li porterebbe a essere loro stessi il termine di paragone per le band a venire. Hanno tutte le carte in regola per riuscirci. Mi auguro quindi di poter leggere un domani : “…questa band ha un tipico sound à la Sinheresy” e non il contrario.
Vladimir Sajin