Recensione: Don’t break the Oath
“By the symbols of the creator
I swear henceforth to be
A faithful servant of his most Puissant archangel
The Prince Lucifer
Whom the creator designated as his regent
And I abjure the Christian faith
Holding in contempt all of it’s works” -King Diamond, The Oath
Non era ancora svanito il successo del demoniaco Melissa, che dall’alto della sua immaginazione l’ancora giovane Re Diamante gettò le basi al secondo studio album, che vide la sua comparsa nel 1984 sotto le bandiere della Roadrunner Records e il nome di “Don’t Break the Oath”. Il disco si pone come obiettivo quello di continuare a esaltare i fans che già con Melissa avevano avuto una vera e propria scossa adrenalinica, vista la quantità di malvagità e durezza che l’LP, specie per quegli anni, conteneva. E i Mercyful Fate riescono in pieno nel loro obiettivo. Infatti “Don’t Break..” non si dimostra solo una fedele continuazione del suo predecessore, ma è addirittura più ampio, per atmosfere, come sempre legate ad atti demoniaci che fanno letteralmente venire la pelle d’oca, per durata (infatti è di quasi 5 minuti più lungo) e in generale perché si capisce che la band era maturata, e questa maturazione stava dando i suoi frutti. Musicalmente “Don’t break the Oath” è un classico album misto tra vero Heavy Metal, affilato come un rasoio, e un mix di melodie corali e liriche che si fondono perfettamente in un contesto occulto/horrorifico, come pochi dischi a mia memoria hanno saputo fare. La voce del King è come sempre quasi perfetta, in tutte le sue forme, nel falsetto, usato tantissimo per dare tono ed esaltazione al suonato, nella voce corale, negli urlacci, che usa poco, ma che risultano sporchi al punto giusto per fare in modo che si capisca tutto quello che viene detto. La voce è come sempre accompagnata dai grandi compagni Michael Denner (chitarra), Hank Shermann (chitarra), Timi Hansen (basso) e Kim Ruzz (batteria), che dietro i loro strumenti tritano le orecchie dell’ascoltatore senza però mai distoglierlo dal contesto principale. Comprendente 9 songs, “Don’t break the Oath” lo divido in due parti, la prima che è se vogliamo una introduzione al cuore del disco, e che va fino alla quarta canzone compresa, e il cuore vero e proprio dove ci sono pezzi che per carisma, sonoro, tematiche, sono davvero mostruosi. Si parte subito con “A Dangerous Meeting”, che inizia con una ubriacante chitarra, seguita dalla batteria, che fanno da apripista verso luoghi sconosciuti e inimmaginabili. Eccezionale subito il mix tra la voce (la parte migliore della canzone, per come viene usata) e le chitarre, per questa mid tempo che fa accapponare la pelle, con numerose distorsioni degli strumenti stessi. Ottime rifiniture della Lead Guitar, anche nell’emozionante assolo, mentre batteria e basso sono forse un po’ in disparte, ma fanno comunque il loro mestiere per una traccia che entra di diritto tra le migliori opener dei lavori dei Mercyful Fate. Sconsolante (in positivo) l’utilizzo della campana alla fine del brano. Molto più impellente e pomposa della prima canzone è invece “Nightmare”, quasi interamente falsettata, e stavolta aiutata da un eccellente lavoro del bassista. Si alternano parti molto rapide, vere cavalcate, a riff quadratissimi, che attirano l’attenzione a dir poco, così come i magnetici assoli. Gran song in definitiva, anche se gli preferisco la prima. Terza di queste tracce introduttive è “Desecration of Souls”, che parte con riff lenti e taglienti e una voce carica di odio e minacce, accompagnata da una lead guitar che asseconda chiaramente i sentimenti del cantante. Il resto della voce a dire il vero non mi convince tantissimo, a parte nel refrain, ma le parti prettamente suonate sono terrificanti, e quindi vanno sentite sicuramente. A chiusura del famoso ciclo introduttivo già citato, viene in nostro aiuto “Night of The Unborn”, che inizia subito con una chitarra ampiamente distorta, aggressiva a mille, e che ci porta in un ambiente molto ritmato, dominato, come detto, sempre dalle distorsioni della chitarra elettrica. Falsetto altissimo (e tuttavia senza sbavature), usato in tutta la canzone che è tutto tranne che una nenia, e che ci porta in pompa magna verso la seconda parte dell’album. Stop alla musica per qualche secondo, perché Satana sta scendendo tra di noi. Infatti ci ritroviamo in una cappella sperduta da qualche parte, lampi, vento e acqua a catinelle imbruttiscono una cupa notte. Una campana e un organo si sentono dal vecchio Sacro Edificio, una voce, una preghiera, una diabolica risata. Così inizia “The Oath”, canzone che a mia veduta è quanto di più maligno mai prodotto da King Diamond, che pure non è un uomo tenero. La intro, tra le più da pelle d’oca da me mai sentite, anche perché fatta davvero con classe, lascia il posto a una sfrenata chitarra, dai riff spettacolari, forse i migliori della produzione, un basso estremamente sonoro e cupo, e una voce carica di odio e fanatismo, che fanno di The Oath la canzone più esplosiva di tutto il disco, roba da pazzi, non mi sento di aggiungere altro, non trovo le parole. Ovviamente non sullo stesso livello, anzi, è “Gypsy”, che risulta comunque molto ben ritmata, incalzante, cantata bene, molto piacevole in sostanza, ma che ha forse un terzo del carisma della precedente “Milesong” (scusate il neologismo) del Re Diamante. Non sto dicendo che sia brutta eh, in qualsiasi altro punto del disco Gyspsy farebbe un figurone, ma purtroppo è stata messa qui, anche se ovviamente è da sentire e risentire. Molto bella è “Welcome Princess of Hell”, altro titolo che non ha bisogno di particolari presentazioni, velocissima, riffs magistrali, granitici ma esplosivi allo stesso tempo. La voce in clima di invocazione è splendida, e anche il falsetto che ne segue è degno della fama che lo circonda. L’assolo è forse il migliore della compilation. Accolta nella sua casa la principessa dell’inferno, il Diamond decide di regalarci un intermezzo di meno di due minuti, e ci presenta “To One Far Away”, intermezzo bellissimo, caratterizzato da un dolce arpeggio, un coro, e una lead guitar che chiude in fade e che nulla lascia trasparire su quella che sarà la canzone di chiusura del disco, altra “Milesong”, come le ho chiamate prima. La canzone, che merita un capitolo a parte, si tratta di “Come to The Sabbath”, la mia preferita in assoluto dei Mercyful Fate e di una buona fetta dell’Heavy Metal. Ovviamente si narra della preparazione del rito oscuro, le voci si alternano in una sfuriata strumentale, pazzesche le chiusure vocali in fade prima dei refrain, spaventoso l’inizio per come introduce perfettamente nel clima della song, lirica devastante, come tutte quelle dell’album, assolo ubriacante e forse qualcosa in più. La canzone si chiude inoltre in modo del tutto geniale, ovvero con la vera e propria messa nera. Niente chitarre distorte, ma un arpeggio da pelle d’oca e di attesa, il coro di invocazione all’adorazione del caprone, qualcosa che lascia veramente a terra per come viene riprodotto fedelmente (anche se personalmente non ho mai visto dal vivo una messa nera io così me la immagino J ). Ecco, “Don’t Break the Oath”, il miglior lavoro di sempre dei Mercyful Fate, si chiude qui, meglio di come era iniziato. Consigliato ovviamente ai blackster per le tematiche, a tutti coloro che si professano metallari per la musica eccezionale. Fossero tutti così gli Album da recensire, starei davvero a dormire tra due guanciali.
Riccardo “Abbadon” Mezzera
TrackList :
- A Dangerous Meeting
- Nightmare
- Desecration of Souls
- Night of the Unborn
- The Oath
- Gypsy
- Welcome princess of Hell
- To one far Away
- Come to the Sabbath