Recensione: Don’t Look Back
Avvicinatevi, nostalgici. Avvicinatevi.
Oggi TrueMetal vi racconta del caldo agosto 1978, un tempo lontano in cui i baffoni anacronistici non erano prerogativa solo di camionisti messicani, ma prolificavano spavaldi anche sui volti di un manipolo di giovanotti del Massachusetts.
Un gruppetto di giovani con la passione per il rock and roll, guidati da un talentuoso polistrumentista dal nome di Tom Scholz, invasato totale di computer e tecnologia e figlio di una decade che stava per volgere al termine. ‘Animal House’ era uscito al cinema da un paio di settimane e gli Who pubblicavano ‘Who Are You’. Erano gli ultimi giorni di Keith Moon, uno dei batteristi piú devastanti che la musica abbia conosciuto, che sarebbe morto a settembre per un’overdose di farmaci, dopo una cena in compagnia di Paul McCartney a Covent Garden. Ma questa é un’altra storia.
Torniamo dall’altro lato dell’Atlantico, dove nel 1978 i Boston avrebbero chiuso una parentesi di soli due anni che avrebbe peró valso loro la notorietá assoluta e si sarebbe tramutata in ben 24 milioni di copie vendute. Merito del debutto, l’omonimo Boston, ricordato dai piú per una ‘More Than a Feeling’ che rientra a pieno titolo tra i brani piú suonati, cantati e ascoltati dell’intero pianeta. Merito anche di questo Don’t Look Back, che avrebbe dovuto chiamarsi ‘Arrival’ (notare l’artwork) ma che cambió nome per non fare il verso agli ABBA, che due anni prima avevano chiamato ‘Arrival’ il loro album del 1976 (sí, proprio quello di Dancing Queen, Knowing Me, Knowing You e Money, Money, Money).
L’agosto 1978 é un tempo in cui la musica vive di melodie sincere e genuine, le radio ancora hanno spazio per la qualitá e la gente vive la musica, non guarda i live in streaming su internet. Un tempo in cui i Boston sono nel periodo d’oro e il loro tocco é quasi filosofale: non sbagliano un pezzo. Don’t Look Back é un album che lascerá il segno, nella carriera di Scholz e soci e nella musica che verrá: otto brani senza pecche, niente riempitivi, niente passi falsi. A partire dalle numerose canzoni-simbolo di un’era e di una band che ha nei mordent elettrici di Tom Scholz e Barry Goudreau, nelle loro armonizzazioni, un trademark unico. Quello che avrebbe acceso le melodie della title-track Don’t Look Back o della fantastica e solare It’s Easy, uno dei brani piú accattivanti e spensierati che l’arena rock abbia partorito. Perché i Boston sono cosí, malinconici ma sempre con il sorriso sulle labbra. Talvolta in un’altra dimensione celeste: come con la strumentale The Journey, scritta da Scholz che ancora oggi non manca di ricordare essere il suo ascolto fisso ogni sera prima di addormentarsi. A concludere uno dei lati piú forti della discografia degli Americani – mi riferisco ovviamente ai lati del vinile – la bellissima power-ballad A Man I’ll Never Be. Un terreno precedentemente inesplorato che si anima man mano che ci si avvicina all’assolo di chitarra, che inizia citando More than a Feeling, e il testo che anticipa la successiva Feelin’ Satisfied, dove i Boston tornano alle loro sonoritá piú peculiari, con l’atmosfera melodica che incontra l’heavy metal embrionale di quegli anni. Gli arpeggi distorti che hanno fatto sognare e scuotere folte chiome su almeno 4 dei continenti. La stessa ricetta che risulterá vincente nella successiva Party (Just meet some friends and have a toke or two in a place where they can never play the music too loud!) ultimo baluardo del rock and roll spensierato in vista di una chiusura di album che sará affidata a una coppia di brani in pieno e inconfondibile stile Boston, con il tocco romantico e sempre positivo. Sono Used to Bad News, musica e testo di Brad Delp per l’unico brano di tutto il lotto a non essere stato concepito dalla mente di Tom Scholz, che invece torna al songwriting con Don’t Be Afraid – e a parere di chi scrive ci torna alla grande, per dare vita a uno dei brani piú belli di tutta la discografia della band. Poco piú di 30 minuti, eppure un’ereditá musicale che vale intere discografie.
Si é parlato molto dei Boston, per i detrattori i loro brani sono tutti uguali, costruiti a tavolino sulle stesse armonie, le stesse strutture ritmiche e la stessa forma commerciale. Per chi li adora, sono una delle realta piú rivoluzionarie del panorama melodico, a cui é accreditata l’invenzione di quel movimento arena-rock che avrebbe raccolto tra i suoi confini nomi illustri del panorama musicale ottantiano.
Non si puó certo negare una passione dei Boston per la melodia orecchiabile, il ritornello arioso e l’appeal radiofonico – ma siamo davvero di fronte a un reato? I fatti parlano chiaro, dando ragione a chi vuole questi signori del nord-est americano tra i grandi della musica: i Boston sono stati una delle poche band capaci di arrivare in vetta alle classifiche generaliste, ma molto piú importante delle vendite, hanno segnato il cammino della musica rock. Con solo due album sono diventati un punto di riferimento per tante band che avrebbero scelto il lato melodico dell’hard rock negli anni successivi. Un impatto fin dal giorno-uno che é riuscito a pochi, pochissimi, con un debut album che siede tra i piú venduti e fondamentali di sempre con quelli di Guns e Van Halen. Come si suol dire, immancabile.
Alessandro ‘Zac’ Zaccarini
Tracklist:
1. Don’t Look Back
2. The Journey
3. It’s Easy
4. A Man I’ll Never Be
5. Feelin’ Satisfied
6. Party
7. Used to Bad News
8. Don’t Be Afraid
Discutine nel forum relativo.