Recensione: Doomsday for the Heretic

Di Stefano Ricetti - 23 Gennaio 2006 - 0:00
Doomsday for the Heretic
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Anno: 2005
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85

L’immagine della band è rozza, sporca e trasandata: la foto che ritrae i cinque metallari sotto il monicker di Metal Inquisitor puzza di anni ottanta lontano un chilometro… quante volte accade in questi ultimi anni di trovarsi fra le mani un disco con queste credenziali? Poche, poche… maledettamente poche! Il trend imperante in ambito classic/epic/power in voga da qualche tempo – e che sembra non arrestarsi ancora – prevede facce pulite, pseudo richiami alle grandi band degli anni ottanta nelle dichiarazioni e non nella sostanza, copertine fantasy ben curate, produzioni roboanti, tastiere ogni dove. Per carità, intendiamoci bene: le punte di diamante di questo modo di fare heavy metal hanno sfornato fior di dischi, alcuni dei quali fra qualche primavera saranno sicuramente annoverati fra i “classici”  ma si è anche inflazionato il mercato con una pletora di cloni, di cloni dei cloni e così via che altro non hanno fatto che confondere il pubblico pagante.

I Metal Inquisitor sono metalhead vecchio stampo, se non come età sicuramente come attitudine, prerogativa che pare ormai confinata solo alla Germania e per certi versi anche all’Italia e alla Spagna, visto che in Inghilterra in questo contesto (le nuove leve) ormai regna lo “sbrago” più totale. I Nostri nascono nella zona di Koblenz, intorno al 1998. Dopo i soliti demo esce il loro primo full length nel 2002, dal titolo The Apparition. Seguono ancora una serie di demo e finalmente, alla fine del 2005, vede la luce questo Doomsday for the Heretic, seconda fatica discografica del combo germanico. La line up prevede El Rojo dietro al microfono, Blumi e T.P. alle chitarre, Kronos al basso e Havoc alle percussioni. Hanno suonato al Rock Hard e al Keep it True festival e sono in scaletta per il prossimo Headbanger’s Open Air di quest’estate. 

Doomsday for the Heretic
Recall the Heretic Past
è il classico pezzo strumentale che tira la volata alla prima mazzata metallica del Cd intitolata Doomsday for the Heretic e fa subito capire di che pasta sono i nostri: niente fronzoli, chitarre libere da qualsiasi orpello e un cantante vecchia maniera epico e potente, dotato dal buon Dio di una timbrica fuoriuscita da un sapiente mix delle gloriose ugole di campioni come Rob Halford, Biff Byford e Rock’n’Rolf Kasparek. Restricted Agony fa il verso ai primissimi Metallica, quelli degli inizi, assetati di sangue e violenti come pochi mentre Thane of Cowder sembra uscita direttamente dalla penna di Mr. Running Wild Rolf: riff assassini e sezione ritmica alla tedesca che non lascia prigionieri! Star Chaser con le sue linee vocali in crescendo ricorda molto da vicino i nostri Vanexa, riproponendo in chiave 2005/2006 la lezione dei big della Nwobhm, soprattutto gli Iron Maiden nella fattispecie, per via dei riff di chitarra molto legati ai primi album della band di Paul Di’Anno.

Midnight Rider non è la cover del classico dei Saxon presente su Denim and Leather ma un mid tempo massiccio da far paura, con le chitarre che paiono delle clave che colpiscono senza redenzione. Il chorus a metà pezzo richiama una altra band storica, ovverosia gli svedesi Torch. Il tributo ai Saxon è però solo rimandato di un brano: Legion of Grey è la versione moderna di 20,000 Ft con dei cori che richiamo Manilla Road e Heavy Load. Il brano più epico dell’album è invece Infamia, dove cavalcate Nwobhm vengono sapientemente dosate dal singer in veste di gran cerimoniere per un finale a rintocchi di campane. Logan’s Run pur non facendo gridare al miracolo, grazie a un singer carico di pathos come El Rojo, riesce ad agguantare lo stesso la sufficienza, anche se per il sottoscritto può essere considerata come l’anello debole di Doomsday for the Heretic. M4 A1 ritorna ai fasti dei pezzi precedenti: velocità che sfociano nel thrash vecchia maniera dove i Nostri fanno l’occhiolino agli Over Kill di Feel the Fire. Segue Invader, – cover non memorabile, invero – del pezzo dei Judas Priest presente su Stained Class (1978) mentre si chiude il lavoro con la bonus track Bad Boys Hardrock Police che dopo le tonnellate di metallo vomitate fino alla song no. 11 sulle nostre orecchie propone un hard’n’roll figlio di Krokus e Ac/Dc che è sempre un piacere sentire.

Una precisazione: probabilmente qualche lettore potrà obiettare riguardo il fatto delle mie innumerevoli citazioni di altri gruppi nel track by track precedente. A mio modo di vedere è il modo più semplice e chiaro per dare un’idea reale di quanto ci si possa aspettare da un album, soprattutto prima di sborsare parecchi Euro per acquistarlo. I Metal Inquisitor sono certo derivativi, anche se penso che sia molto meglio essere derivativi – soprattutto in ambito classic/epic/power, dove è rimasto ben poco da inventare, ovviamente senza contaminazioni, che ne snaturano il genere e i confini – e fare un album di questa caratura, che cercare a tutti i costi il “nuovo” e fare album che dopo un ascolto, se va bene, vengono usati come sottobicchieri!                            

Fino all’anno scorso avevo riposto le mie maggiore speranze negli Stormwarrior, insignendoli dello scettro del comando relativo alla continuità del metallo classico ereditato delle big band degli anni ottanta. Le mi aspettative furono però mal riposte ed evaporarono come neve al sole dopo l’uscita del deludente Northern Rage del 2004 che in un colpo solo cancellò tutte le premesse, ampiamente confermate fino all’Ep Heavy Metal Fire del 2003. Che fosse stato un segno del destino? Gli Stormwarrior sono stati spodestati a pieno titolo dai Metal Inquisitor a suon di mazzate di acciaio tonante… spero ardentemente che non mi deludano a breve anche loro con il prossimo, cruciale, lavoro.

Per adesso, cari defender, leviamo in alto le spade, il grande metallo classico è prepotentemente tornato!  

Stefano “Steven Rich” Ricetti

 

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