Recensione: Doomsday King
Prendete una manciata abbondante di deathcore e una meno ricca di swedish death metal. Miscelatele per bene, aggiungete nitroglicerina a profusione e infine fate saltare il composto in aria. Una volta che il fumo della deflagrazione si sarà diradato intravedrete – sempre più chiaramente – la sagoma di “Doomsday King”, il quinto album degli svedesi The Crown.
Descrivere con un’altra metafora questa terrificante esplosione di energia allo stato puro sarebbe stato poco incisivo: il full-length è dotato di una potenza straordinaria, quasi senza fine. Una spaventosa aggressione ai nostri timpani lunga dieci canzoni per quarantaquattro minuti di musica.
Chiaro, nel gruppo hanno bazzicato e bazzica gente che ha suonato con gruppi che non vanno certo per il sottile come Impious, The Haunted, Angel Blake, God Dethroned, Nightrage e At The Gates, tanto per citarne alcuni. Con che, sarebbe stato illogico pensare ai The Crown come a una band dedita all’A.O.R. (fatto, questo, più che evidente sin dal loro esordio nel 1998). Sorprende, invece, il fatto che Jonas Stålhammar (God Macabre, Abhoth, Macabre End, Utumno, Bombs Of Hades, Darkcreed, Space Probe Taurus, The Colombos) e compagni abbiano saputo imbrigliare così bene in un platter un impeto che, forse, non ha avuto eguali quanto a intensità, nella loro carriera.
Sì che i loro dischi non son mai stati «per signorine», ora, però, pare davvero che il combo scandinavo sia giunto a un livello di estremismo sonoro ai limiti del conosciuto. Uno dei rari casi in cui uno split (2004 ÷ 2008) abbia giovato alla salute di un ensemble? Direi di sì. La matrice sulla quale i cinque scellerati costruiscono la loro struttura musicale è alimentata dall’infinita ragnatela di riff (palm-muting e «corda libera» a profusione …) partoriti dalle chitarre di Marcus Sunesson (The Haunted, Engel) e Marko Tervonen (Angel Blake, Impious), incollati dal suono denso e rotondo del basso di Magnus Olsfelt (Dream Evil, Stolen Policecar). Janne Saarenpää (Aven Aura, Angel Blake, God Dethroned) completa un suono massiccio come le Montagne Rocciose utilizzando un drumming vigoroso e vario, sconfinante, a volte, nell’inumano limbo dei blast-beats.
Il sound è inoltre adulto, maturo e personale ma, obiettivamente, non originalissimo; talmente imponente, tuttavia, da avere pochi riscontri fra i colleghi (Heaven Shall Burn?). Comunque, a dare un’impronta di buona unicità, ci pensa l’ugola di Jonas Stålhammar (God Macabre, Abhoth, Macabre End, Utumno, Bombs Of Hades, Darkcreed, Space Probe Taurus, The Colombos); resa ruvida da un semi-growl spesso dai toni deliranti e ipnotici, aggressivo come pochi.
Quindi, la ciliegina sulla torta: le canzoni. L’attenzione posta dal combo di Trollhättan non si è concentrata, difatti, soltanto nel far deflagrare tutta la propria feroce carica interiore; bensì, anche, nella stesura dei dieci brani che compongono “Doomsday King”.
“Doomsday King”: l’incipit scandito da una campana a morto non deve ingannare. Dopo pochi attimi le mazzate che Jonas Stålhammar propina al povero rullante e i riff claustrofobici delle asce spazzano via ogni indugio, con un «traditore» rallentamento centrale che calma un po’ le acque così da far maggior contrasto con la furia degli elementi che caratterizzeranno la parte finale della song.
“Angel Of Death 1839”, seppur anni luce dal leggendario episodio degli Slayer, sussurra alcuni assaggi di Raining Blood nelle armonizzazioni più alte delle chitarre. Quasi a dimostrare che alla fine è da lì, dal thrash, che sono nati gli estremisti del metal. Il tutto, però, nel vigoroso e caratteristico stile dei Nostri.
“Age Of Iron”: si scatena il riffing stoppato e compresso delle chitarre, nuovamente simile a quello del guitarwork consueto degli act della tradizione thrash. Eccellente il rapido e melodico solo della sei corde.
“The Tempter And The Bible Black”. Di nuovo, un inizio «doomoso» (dopo quello di “Doomsday King”); lento e cupo. Mood che non muterà nelle varie parti della canzone, in costante crescendo restando, comunque, entro il limite del mid-tempo. Un brano che, per un attimo, lascia andare la furia cieca per dedicarsi all’introspezione.
“Soul Slasher” riporta le coordinate stilistiche verso territori più consoni al deathcore, con un riff portante somigliante a quelli fabbricati a iosa dagli Exodus; anche se il wattaggio in gioco è marcatamente più elevato.
“Blood O.D.”: non tralasciando, ancora una volta, qualche richiamino agli Slayer, si ritorna al tipico sound nerboruto dei nostri che, invariabilmente, porta alla distruzione della nostra membrana timpanica.
“Through Eyes Of Oblivion”: massacro. Il lavoro delle chitarre assume dimensioni titaniche, trascinato da una sezione ritmica travolgente sino ai blast-beats e dalle stentoree linee vocali di Stålhammar. Un improvviso break centrale ricorda che i nostri masticano anche heavy, tanto per gradire.
“Desolation Domain”. Il suono malato delle chitarre, ritmato dai piatti Saarenpää, mette in azione la seconda carneficina di “Doomsday King”. Una song fatta apposta per demolire gli stage! Le tinte più fosche fanno da sfondo all’immancabile break centrale, nuovamente insaporito dal doom.
“From The Ashes I Shall Return” prosegue il discorso intrapreso con il pezzo predente nella riproposizione di un sound marcio delle chitarre e di una sequenza di cambi di tempo che farebbero far fare headbanging anche a una statua di marmo. In mezzo all’irresistibile tiro del titolo, c’è anche lo spazio per qualche rallentamento che, se possibile, aumenta la pressione sonora proposta spesso e volentieri nel CD.
“He Who Rises In Might – From Darkness To Light”, l’ultima tappa del viaggio. All’inizio un vero e proprio sfacelo verso gli stati ipnotici dell’hyper-speed, la lunghezza della canzone stessa consente ai The Crown di sbizzarrirsi affrontando armonizzazioni più complesse, seppure sostenute dal solito stile «spacca-ossa». Ottima la linea melodica inserita verso la fine del brano, giusto per far vedere che anche quando si tratta di interessarsi alla melodia, i The Crown – nuovamente – non sono secondi a nessuno.
Nessun particolare segno di contaminazione e/o evoluzione, però c’è tanta, tanta potenza che deborda dalle tracce di “Doomsday King”. Potenza che non esime i The Crown da riuscire a comporre canzoni interessanti come “Doomsday King” o “He Who Rises In Might – From Darkness To Light”. Se vi trovate fra chi apprezza questo tipo di approccio al death, basato principalmente sull’aspetto muscolare, gongolerete nell’acquistare “Doomsday King”. Se, invece, oltre a questo, amate anche qualche attimo più intimista, gongolerete lo stesso!
Daniele “dani66” D’Adamo
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Track-list:
1. Doomsday King 4:07
2. Angel Of Death 1839 3:47
3. Age Of Iron 3:13
4. The Tempter And The Bible Black 4:41
5. Soul Slasher 3:22
6. Blood O.D. 4:09
7. Through Eyes Of Oblivion 3:49
8. Desolation Domain 4:52
9. From The Ashes I Shall Return 6:08
10. He Who Rises In Might – From Darkness To Light 6:06
All tracks 44 min. ca.
Line-up:
Jonas Stålhammar – Vocals
Marcus Sunesson – Guitars
Marko Tervonen – Guitars
Magnus Olsfelt – Bass
Janne Saarenpää – Drums