Recensione: Doomsday Rituals
I Centinex tornano, con il proprio tanfo di morte ad accompagnarli, alla nona fatica discografica.
Scioltisi nel 2006, rinascono genuinamente grondanti di sangue nel 2014, con i nuovi ingressi di Sverker Widgren alla chitarra e Alexander Högbom alla voce, e il solo Martin Schulman della line-up originale. Nuova vita, direte voi, e nuova attitudine musicale? In parte sì, perché vero che certi dettami del death più ferale restano costante, ma qualcosa cambia, diventando essenzialmente più minimale rispetto agli albori.
L’affilato death/thrash di “Subconscious Lobotomy” è un vago ricordo, la band sposta il tiro a suoni cupi, vicini al groove e alla scuola Made in Usa. Sottigliezze per alcuni, ma per altri la differenza si noterà, eccome. Certamente, rispetto “Redeeming Filth” gli spunti sono maggiori, anche se la linea conduttrice è ormai questa. Un velo di tristezza aleggia forse intorno al nostro ormai, e non vi nascondiamo che per molteplici aspetti è proprio così.
Manca quel selvaggio, acre sapore che il tempo trascorso non ci potrà restituire mai più. Fa parte dell’attitudine degli artisti cambiare, vuoi per il passare del tempo, vuoi per un contesto che non è più quello degli albori del genere della morte. Certamente la vena compositiva di Schulman nei Demonical stuzzica maggiormente, e volendo trovare una ragione alla violenza fine a stessa dei Centinex, potrebbe essere la voglia del medesimo di voler qui lasciarsi andare a istinti primordiali, senza pretesa alcuna.
Il full-length che ne scaturisce è di impatto, come già dicevamo pocanzi, più curato del predecessore, ma non per questo meno becero. “Doomsday Rituals” si mostra a noi tra alti, fatti di ritmiche coinvolgenti, e bassi, fatti di ambientazioni che paiono più riempimento che consapevole atmosfera.
Idealmente a metà fra Dismember e Six Feet Under.
Il giudizio universale viene così rappresentato come un qualcosa di per nulla mistico o spirituale, ma come l’accendersi di un’indole atavica, capace solo di strappare e sfamare i propri primevi appetiti.
Stefano “Thiess” Santamaria