Recensione: Down To The Core
Tre anime: Thomas LaVerdi, Josh Ramos, Michael Shotton.
Un unico corpo: L.R.S. .
Un solo obiettivo: melodic rock’n’roll!
Sotto l’egida dell’onnipresente Del Vecchio, il progetto L.R.S. prende vita per mano dei reduci dell’AOR Thomas LaVerdi (proveniente dai 21 Guns fondati da Scott Gorham dei Thin Lizzy), Josh Ramos (The Storm) e Michael Shotton (batterista di Von Groove e Airtime).
Da quanto si evince dal curriculum dei Nostri, L.R.S. vuole riunire il meglio delle melodie avvolgenti tipiche del rock melodico, che contraddistinguevano i fuoriclasse Journey e i meno apprezzati e conosciuti The Storm (i quali, formati nel 1990, annoveravano Gregg Rolie, Ross Valory e Steve Smith, tutti e tre ex-membri degli stessi Journey).
L’asso nella manica di questo combo, tuttavia, risiede nell’indiscutibile talento di Tommy, la cui performance trasmette tutta la verve catchy di cui un complesso AOR ha bisogno.
Un concetto che non necessita di ulteriori spiegazioni, nel momento in cui verrete colpiti dalle armonie spacca cuori di “Our Love To Stay”, un tuffo nel passato con le sue hooklines calde e passionali dal sapore eighietes meets nighties.
Il turbinio catchy del coro è mutuato e velocizzato dal solismo strumentale, in cui chitarra e tastiera allestiscono un pattern affiatato, all’interno di un quadro sonoro potente e solare al contempo.
Gli L.R.S. non si concedono un attimo di respiro e spingono sull’acceleratore, destinazione “Livin 4 A Dream”: non fatevi ingannare dal piano velato di questa canzone perché la scarica successiva è puro melodic rock trainato da chitarre rampanti e sincopati riff, che supportano le eleganti liriche.
Josh Ramos non si risparmia e lancia con rinnovato vigore un guitar work veloce, vibrante che ci trasporta in un sogno fatto d’aspettative e speranze.
Il terzo slot ospita la ballad di genere “I Can Take You There”: il sound si tinge di atmosfere più leggere e vellutate (in salsa Place Vendome), soprattutto nei sempre espressivi assolo (meno carichi ed entusiasmanti), accompagnati dalle avvolgenti armonie vocali. Il ritornello è suadente ma meno riuscito e coinvolgente rispetto ai due shots precedenti.
“Never Surrender” è come una macchina del tempo con i suoi richiami alla West Coast: il gioco si ripete grazie a un pre-chorus con chitarre hard rock, aggraziate ed energiche, mentre il refrain avvolge con luce solare.
Le vibrazioni sono, però, il cameo perfetto che completa il ritornello, sempre sostenuto da un sottofondo chitarristico emozionale.
Da bravi Aorester, gli L.R.S non rinunciano a un midtempo romantico, qui rappresentato a dovere da “Almost Over You”: le sezioni acustiche si sposano alla perfezione con innesti più robusti, un dualismo mutuato da uno strepitoso La Verdi, in grado di accarezzare le linee vocali nelle parti più rallentate e infondere energia in quelle più accorate.
Il successivo “Shadow Of A Man” è il classico pezzo che non stonerebbe nel repertorio di qualunque big del melodic rock (Bon Jovi): un brano che mette al servizio dell’audiance la potenza e la classe controllata di La verdi, sempre ricco di pathos e sentimento.
Il backing è una cascata di suoni, che ci riporta con la sua elevazione a ricordare mastermind quali Stryper (senza parlare del guitar solo, sempre di valore ma meno eclatante di “Never Surrender”).
La visione si espande e partiamo per il lungo viaggio nell’io umano di “Universal Cry”: l’atmosfera si allontana dal canonico adult rock, grazie alle tastiere di Alessandro Del Vecchio, che compone un intro più dilatato e misterioso.
Questa sensazione è amplificata dalla voce protagonista, la quale riproduce fedelmente il significato delle liriche al crescere dell’intonazione: infatti, al grido “raise your hands to the sky”, le voci ascendono con forza, pennellando un ritornello adornato dall’immancabile coreografia di sottofondo (backing altisonanti e chitarre dai suoni smussati). Il panorama di “Universal Cry” dona quel tocco eterogeneo che, se fosse stato approfondito, avrebbe donato maggior varietà e freschezza alla proposta musicale.
Chitarre alte e pianoforte incedente è la formula proposta dal lentone “To Be Your Man” ovviamente infiocchettato dal ritornello corale, pieno e elevato. L’assoluta protagonista di questa ballad di maniera è, nuovamente, l’elevazione del frontman, sempre a suo agio con grandi performance, quasi a omaggiare numi tutelari del rock, quali il compianto Fredericksen.
Come da copione, la title track è posta volutamente al centro del platter: il DNA del brano è racchiuso nel solido riff portante, sostenuto da una compatto drumming e movimentato, qua e là, da qualche riverbero tastieristico, consegnandoci la prova più vigorosa dell’intera tracklist.
Ironia della sorte, il ritornello non è appagante come atteso ma risulta in qualche modo stereotipato, se confrontato con i refrains dei brani d’apertura, sensazione rafforzata dall’ascolto delle prime canzoni.
Ed è proprio dalla title track che si incomincia ad avvertire un senso di stanchezza che traspare dalla scrittura del songwriting: la carenza di idee di “I Will Find My Way” porta a ripetere stilemi già sfruttati, seppur con classe e preparazione artistica indubbia.
“Waiting For Love”, tuttavia, è ancora un pezzo di valore ricco di chitarre rampanti, che riluce essenzialmente per la tensione generata dal chorus in fuga, senza mai rinunciare al “proficuo” contributo solista firmato Ramos.
L’inno finale, intitolato “No One Way To Give”, accentua le consuete armoniose, coreografie vocali, ornandole con chitarre melodrammatiche e leggeri tocchi del piano.
“Down To The Core” è, dunque, un successo? Non proprio: il difetto principale di questo disco è la mancanza di una propria identità, forte e definita. L’altro punto debole, risiede nella riproposizione di cori e schemi, che dimostrano un divario tra la qualità dei primi episodi e quella dei brani posti in chiusura, rischiando di stancare tutti quei rockers incalliti cresciuti a pane di Journey, Foreigner e Triumph.
Ciò non toglie che, come debut album, “Down To The Core” risulta un lavoro piacevole e ammiccante, che potrà soddisfare la vostra voglia di rock orecchiabile grazie ad alcune potenziali hits (“Our Love To Stay” su tutte), confezionate ad hoc da una grandissima voce e da alcuni funambolismi memorabili del main guitar.
Insomma, parafrasando i Thin Lizzy, La Verdi è “tornato in città”, ma senza Scott Gorham: nulla da dire, sebbene è in momenti come questi che si sente la mancanza dell’impertinenza del caro vecchio, hard rock.
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