Recensione: Draconian Darkness

Di Stefano Usardi - 21 Settembre 2024 - 10:00

Avevo lasciato i finnici Wolfheart qualche anno fa, all’indomani di “Wolves of Karelia”, con un ricordo positivo: il loro death melodico sporcato di folk ed intriso di possenti orchestrazioni, pur non inventando nulla, mi aveva lasciato soddisfatto e con un bel senso di pancia piena. A quattro anni da quel momento e a due da “King of the North”, eccoli tornare in perfetto orario sulla loro personale tabella di marcia con questo “Draconian Darkness”, settimo album dei finlandesi. La ricetta del quartetto norreno è rimasta sostanzialmente invariata, e prevede un death melodico a metà strada tra l’accessibilità nerboruta degli Amon Amarth di inizio millennio, qualche sfuriata dal retrogusto black per donare al tutto quel profumo gelido ed invernale che mi piace tanto e, per coronare il tutto, pompose iniezioni orchestrali dal piglio cinematografico che mi hanno ricordato gli Ex Deo e i Dimmu Borgir del periodo “In Sorte Diaboli” (si veda ad esempio l’apertura della prima traccia, “Ancient Cold”). Sulla carta, insomma, “Draconian Darkness” ha tutto ciò che potrebbe piacermi in un’uscita di questo tipo, eppure devo dire che a questo giro la scintilla non è scattata del tutto. Se da un lato non si può negare che il quartetto nordico abbia ormai sviluppato la propria cifra stilistica in una formula ben codificata ed appagante, che funge da perfetto entry pass per un genere potenzialmente ostico grazie ad un approccio accattivante e all’uso di melodie tese e possenti per tengere a bada un fattore violenza mai troppo pronunciato, devo riconoscere che stavolta le mie alte aspettative sono rimaste parzialmente disattese. I pezzi di “Draconian Darkness” esibiscono e caricano a mille tutte le caratteristiche tipiche dei nostri, concentrando in ogni traccia una notevole quantità di ciccia, ma proprio per questo essere così farciti finiscono spesso per perdere in impatto. Durante l’ascolto di “Draconian Darkness” si avverte la mancanza della classica zampata che trasformi un pezzo bello in un pezzo memorabile, e ciò alla lunga impantana l’album in un limbo di aurea mediocritas fatta di tracce piene e formalmente belle ma che lasciano poco al termine dell’ascolto.

Ancient Cold” apre le danze con la già citata intro sinfonica, sviluppandosi poi in un pezzo movimentato che alterna sfuriate rapide e minacciose a rallentamenti melodici che però, per la loro eccessiva carica di pathos, costituiscono a mio avviso la zavorra che impedisce al pezzo di decollare. “Evenfall” parte sfrontata, salvo poi insinuare nell’amalgama fraseggi più tranquilli, quasi elegiaci, che ne sostengono il fare insistito e inesorabile, giocandosela bene ma perdendo un po’ di smalto nel ritornello a mio avviso abbastanza spompato. Va meglio con “Burning Sky”, introdotta da un arpeggio languido che in breve si carica di enfasi battagliera. Lo sviluppo del pezzo si caratterizza per riff gelidi ma ben sorretti, quando serve, da melodie trionfali ed eroiche che gli donano un certo carisma. “Death Leads the Way” è una marcia scandita che spande intorno a sé profumo di Amon Amarth, ma anche qui si perde per strada durante un ritornello non perfettamente a fuoco, mentre “Scion of the Flame” torna a giocare con diverse consistenze, dispensando carica drammatica e pathos eroico e infilandoci, quando serve, un arpeggio dimesso o qualche sfuriata gelida. “Grave” si muove su coordinate feroci, alternando rapide rasoiate a rallentamenti più spessi e arcigni e condendo il tutto con melodie cinematografiche, mentre “Throne of Bones” si concentra di più sul groove. I tempi si mantengono perlopiù quadrati, marziali, salvo poi impennare di colpo e farsi vorticosi, sostenuti da orchestrazioni stavolta più concentrate e discrete. “Trial by Fire” torna ad alzare i giri del motore, insinuando nella ricetta del gruppo una bella nota maligna e dispensando melodie inquiete tra un rallentamento e un’incursione orchestrale. Chiude l’album “The Gale”, un bel pezzo che saltella tra un’anima crepuscolare e dimessa e rapide sfuriate dal pathos intenso, malinconico, sfumando poi nelle note di un piano e ponendo il sigillo su un lavoro che mi ha dato l’idea di bello senz’anima, per storpiare Cocciante.

Draconian Darkness” è un lavoro formalmente impeccabile ma che, nella sua ricerca ossessiva di mettere tutto al posto giusto, finisce per risultare anche piuttosto incolore, privo di quella scheggia di follia che scompagini le carte e che gli permetta di smarcarsi da un certo anonimato.

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