Recensione: Drama

Di Fabrizio Figus - 6 Luglio 2024 - 16:18
Drama
Etichetta: Frontiers Records
Genere: Shred 
Anno: 2024
Nazione:
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87

In una recente intervista, il guitar hero statunitense ha fermamente dichiarato di non sopportare il fatto di essere definito come “ex Megadeth”. Non per spocchia, non per snobismo, ma semplicemente perché, ha detto il musicista, “Sono passati 25 anni. [i Megadeth ndr] Hanno la loro band, di cui io sono il più grande fan, ma le mie cose sono completamente diverse dalle loro”…e infatti è così.

Il nostro maestro d’ascia ha oramai, da tempo, abbandonato le sonorità che l’hanno reso leggendario. Quei tempi sono talmente lontani, nel feeling e nelle scelte compositive, che probabilmente appare stretta anche la definizione di shredder. Il nostro riccioluto chitarrista percorre da tempo una via dell’anima, una dimensione di linguaggio che parla direttamente al cuore e, in misura minore, al cervello. La sua precisione, la sua tecnica e la sua visione chitarristica sono ora al servizio di qualcosa di più profondo e intimo, cosa che lo fa entrare definitivamente nell’Olimpo dei compositori con la C maiuscola. E così, il padre di uno degli assoli metal più famosi al mondo (quello di “Tornado of Souls”) si affaccia nuovamente dal lontano Giappone, dove ormai vive da anni, per raccontare una storia, anzi, più storie, esprimendosi attraverso melodie e armonie oniriche e paesaggistiche.

Anche la copertina di questa sua ultima fatica, “Drama”, la dice lunga mostrando un Friedman assorto e chino sulla sua chitarra sdraiata, quasi come fosse un Beethoven o un Mozart dei giorni nostri (a dir la verità, assomiglia vagamente a Giovanni Allevi).

L’opener “Illumination” è il suono di un’alba. Un risveglio delicato dopo una notte serena, un ritorno alla vita dove luci, colori e profumi vanno ad unirsi in un chitarristico Cantico delle Creature. È un soave grido alla vita che riprende. “Song for an Eternal Child” ci porta tra il verde bucolico delle campagne e ci ricorda un po’ le melodie create da Brian May, in certi tratti. Lo strumento, ogni tanto, è quasi canzonatorio e il brano gode di impeti di passione dal sapore folcloristico. “Triumph” si dipana timidamente serpeggiando tra arie Fantasy e racconti antichi, e ci fa sentire un po’ appartenenti alla Contea degli Hobbit. In un climax impercettibile la musica sale, e si rende più complessa tra arpeggi e archi sinuosi fino ad esplodere con l’ingresso della batteria, la quale regala un sapore più moderno all’atmosfera, mentre le dita di Friedman raccontano una, cento, mille immagini.

“Thrill City” è un brano easy-listening, adulatore e catchy. Il suo inizio farà sperare a qualcuno di essere in procinto di assistere ai vecchi suoni del compositore ma, con fare furbo, il mood passa di soppiatto a visioni più leggere, nonostante non abbandoni mai il sound distorto. L’inizio di “Deep End” è affidato a un pianoforte delicato e ovattato (mi viene in mente “Passi sulla Neve” di Claude Debussy); inizio che poi lascia spazio a un’aria di ampio respiro, farcita da momenti drammatici che ricadono verso una delicatezza preparatoria per altre acme struggenti.

A questo punto, passiamo a una canzone vera e propria, l’unica del disco: “Dead of Winter”, cantata da Chris Brooks, singer dei Like a Storm. È una potente ballad che ci ricorda un pochino i Goo Goo Dolls. Forse è un momento un po’ incoerente del disco, visto che starebbe bene come colonna sonora di un colossal romantico Hollywoodiano, ma la bellezza del brano fa sicuramente dimenticare la cosa. “Mirage” è un pezzo leggermente lungo e, probabilmente, è il punto carente del platter. Ciononostante, godiamo della raffinata tecnica di cui fa sfoggio Friedman in qualche passaggio.

“A Prayer” è come una pacata discussione tra due amanti, dove il fare deciso fa comunque trasparire il sentimento che permane al di là dei diverbi. Il brano termina però con un accordo profondamente oscuro, che lascia all’ascoltatore una sensazione di preoccupazione. “Acapella”, come dice il titolo, è una breve esecuzione classica, suonata solo con la sei corde, e che scende dolcemente verso “Tearful Confession”, dai vaghi toni propri della chanson francese. È una stesura dal sapore nebbioso, dal carattere inizialmente sommesso, la visione di un clochard che vaga per le vie umide di una Parigi notturna. Non tarda ad arrivare uno scoppio di sonante rabbia, quasi un disperato avvilimento esistenziale che porta, poi, a una ripresa positiva di ritrovata vitalità. “Icicles” ci conduce per mano verso l’epilogo; le sue note sanno di sicurezza e calore. È un brano che va assaporato con calma, perché ogni istante si lega all’altro in un continuum narrativo, che prende le sembianze di un amico tornato da un viaggio avventuroso, il quale ci racconta tutte le meraviglie viste e vissute.

Il disco termina con “2 Rebeldes”, che altro non è che la versione in spagnolo di “Dead of Winter”, cantata da Steven Baquero degli iberici Apolo 7.

In definitiva, “Drama” è un’opera da sentire non solo con le orecchie, è un’entità plasmata per entrare in contatto con la parte dell’essere umano più animica (usando l’accezione ottocentesca del termine). È un percorso cucito sulle esperienze di ognuno di noi perché, proprio queste esperienze, contribuiscono a renderlo testimone del nostro vissuto e delle nostre speranze.

Probabilmente l’ultimo lavoro di Marty Friedman è, banalmente, una riflessione sulla vita e sull’amore perché “Amiamo la vita non perché siamo abituati alla vita, ma perché siamo abituati all’amore” (F. Nietzsche).

https://www.facebook.com/martyfriedman.official

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