Recensione: Drawers
È davvero ostico l’accostarsi ad una proposta come quella dei transalpini Drawers.
Chiusi, cupi, monolitici. Persi in un ermetismo stilistico che, prima di comunicare, annichilisce, fagocita e divora.
A dispetto di una copertina che lascerebbe intuire un che di guascone e divertito, il secondo prodotto sulla lunga distanza (per modo di dire: trenta minuti netti di musica che, data la pesantezza, bastano alla grande) del quintetto francese contiene, in termini d’ascolto, l’esatto opposto di ciò che potrebbe definirsi ludico o rilassante.
L’obiettivo dichiarato, è quello di abbattere i timpani con una miscela di suoni ripresi da stilemi sludge, groove, stoner e metalcore, in uno scenario dall’aggressività esasperata ed angosciosa.
Gli esiti sono, in effetti, proprio quelli di produrre un effetto frastornante che si porta quasi al limite della sofferenza fisica, in un carosello di vocals abrasive e disumane che un po’ ricordano il Jaz Coleman più ferino, martellamenti ritmici che procedono come un cannoneggiamento impazzito ed assalti chitarristici che smulinano riff ossessivi ed ipnotici, spesso ribassati in toni groove a donare gli unici sprazzi di melodia che, quasi rare concessioni, si manifestano come squarci di luce in un’atmosfera caliginosa ed impenetrabile.
Sopraggiungono spontanei talvolta – e non solo per via della voce di Nicolas Bastide – alcuni paragoni con i Killing Joke più estremi ed oscuri, inaciditi e follemente invischiati nella mostruosa intransigenza dei Mastodon e nella malata disperazione dei titanici Neurosis. Uno scenario che, assommati debitamente i tre nomi appena citati, offre il polso di una prospettiva musicale che dell’armonia facile e conciliante non sa proprio cosa farsene, preferendo muoversi sottotraccia per dissimulare qualsiasi trovata melodica che, come coperta da una fittissima coltre di lava fumante, solo una volta dissipati i vapori lascia intendere le proprie forme.
Seguire con costanza l’ascolto reiterato di brani quali “Mourning”, “Bleak” e della conclusiva, insostenibile, “Detour” senza abbandonarsi a qualche sbadiglio sconsolato è, sulle prime, impresa “ai limiti”.
La ricerca di una chiave di lettura che possa offrire le immagini utili nel legare le emozioni alle trame sonore è qualcosa di molto macchinoso e destinato ad un pubblico di pochi, ristretti e selezionatissimi ascoltatori, ben avvezzi alla pratica di un genere come lo sludge “estremo” in cui le possibilità di gratificazione per l’orecchio sono legate esclusivamente alla ricerca di rappresentazioni apocalittiche e fotogrammi di follia.
La potenza è notevole, l’impatto è ferale, l’energia copiosa, ma la godibilità d’ascolto un pelo penalizzata. Almeno, nei primi passaggi.
Solo ad un pubblico realmente attratto da un tipo di suono compatto ed a “tenuta stagna” e, soprattutto, paziente, i Drawers potranno rivelare i propri pregi comunque di un qualche interesse. La furia creativa, il taglio non banale delle armonie, la ruvidità delle chitarre ed il voluto impatto “live” delle canzoni permettono, infatti, a questa seconda opera di raggranellare molti punti a favore, pur nella pericolosità cui una proposta del genere va – inevitabilmente – incontro.
Il rischio di rimanere entro i ristrettissimi confini del più oscuro e nascosto underground sono bene evidenti.
Ma forse, ai Drawers va proprio bene così…
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