Recensione: Dreams Of Death
“Dreams Of Death” non è un titolo qualsiasi in casa Flotsam And Jetsam, come è noto è la seconda traccia di “No Place For Disgrace“, forse l’album ritenuto più importante nella carriera dei ragazzi di Phoenix. Né la band può averlo scelto a caso, consapevole della sua caratura, dopo tre lustri di critiche ininterrotte ricevute per aver abbandonato i lidi del thrash nudo-e-crudo-perché-si ed aver tentato di cercare una propria via al metal che mischiasse heavy, reminiscenze thrash, sperimentazioni vincolate ad una grandissima intensità emotiva, mai venuta meno nelle loro release. L’ottavo disco dunque genera aspettative “pericolose” fin dal titolo e soprattutto dall’opener “Straight To Hell” (che segue la breve intro “Requiescal“), appoggiata ad un riff iniziale persino death metal negli accenti, ma che poi sfocia in un tipico ritornello aperto alla Flotsam. Si nota da subito una produzione meno perfettina del solito, quasi “underground”, molto grezza e in your face, come a dire che stavolta la sottolineatura va tutta sulle composizioni, offerte all’ascoltatore per ciò che sono, evitando ricercati lavori di cesello. Un’attitudine certamente hard-to-the-core.
Senza illudersi troppo, “Dreams Of Death” non è un ritorno tout court al thrash, perlomeno non a quello dei secondi anni ’80; è però vero che l’approccio della band è un po’ mutato. Si avverte meno l’intenzione di scandagliare il pentagramma alla ricerca di nuovi mondi, a fronte di un tuffo di testa nel mare del metallo concreto, di pancia, esigenza che probabilmente i nostri sono andati maturando dopo anni di continui mutamenti (e critiche imperterrite). Una scaletta breve, intensa ed efficace, fatta di una serie di bordate messe in fila, pur lasciando spazio a qualche camera di decompressione (“Bleed“, “Bathing In Red“), dove tuttavia la consueta tensione nervosa della band non scompare (è la lezione di un album come “Drift“, i cui arpeggi fanno più male del moshing di tanti thrasher incalliti). “Look In His Eyes” è il perfetto compendio dei Flotsam 2005, inquietudine, irrequietezza, animosità, elettricità che si traducono poi in un chorus che riconcilia temporaneamente con uno “sguardo” positivo (anche se il testo va beffardamente in direzione opposta).
“Dreams Of Death” è un album di micro variazioni all’interno dello schema Flotsam, fatto apposta per scontentare forse un po’ tutti. Non è un epigono di “Doomsday” e “No Place“, ma non è più neppure un seguito delle rivoluzioni operate con “Cuatro” o “Drift“. I Flotsam alambiccano nel proprio laboratorio spostando qualche atomo musicale un po’ qua, un po’ là, alla ricerca di una formula chimica che non ne tradisca il DNA, li tenga vivi, non dimentichi una certa aggressività ed urgenza distruttiva, ma non sacrifichi tutto unicamente all’impeto cieco. Per quanto mi riguarda, pur nelle sue sofferenze interne (anzi proprio per quelle), “Dreams Of Death” è l’ennesima conferma dei Flots, l’ennesimo disco di un gruppo straboccante di personalità, l’ennesimo passo verso la definizione di una fisionomia estremamente complessa, indisponibile ad essere ridotta ed etichettata con due album risalenti al biennio ’86-’88. Ad averne di band di tale profondità artistica e coraggio iconoclasta.
Le paturnie di questi tre quarti d’ora scarsi (la strumentale ed evanescente “Nascentes Morimar” ne è intrisa) derivano forse anche dallo strappo e dal ricongiungimento col singer Erik A.K., il quale all’indomani di “My God” aveva mollato il microfono (temporaneamente sostituito per alcuni live show da James Rivera) per poi ritornare in seno ai vecchi band mates con prodighi e fecondi propositi. Certo i Flotsam hanno sempre vissuto borderline con la consapevolezza che andare avanti dipendeva esclusivamente dalla loro fermezza emotiva e dalla loro convinzione/dedizione alla causa, poiché molta stampa e taluni metalkid non si sono dimostrati generosi con loro nel corso del tempo. E qualcuno di questi ha anche fatto finta di dimenticarsene in occasione della pubblicazione del recente “Flotsam And Jetsam” (2016); stare sulla sponda del fiume ad aspettare di veder passare i cadaveri paga sempre.
Marco Tripodi