Recensione: Dreamweaver

Di Vittorio Cafiero - 16 Dicembre 2010 - 0:00
Dreamweaver
Band: Sabbat
Etichetta:
Genere:
Anno: 1989
Nazione:
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85

Sul finire degli anni ‘80 – quando la maggior parte delle thrash band si scagliava contro le ingiustizie di una Società e di un sistema corrotti, oppure descriveva la desolazione di aridi panorami post-nucleari e le efferatezze della guerra – c’era un gruppo che, completamente calato in un’epoca oscura e lontana, narrava di vicende misteriose e ancestrali, a metà tra Storia e Fantasia. Stiamo parlando dei britannici Sabbat che, nel 1989, uscirono con il loro secondo full-length intitolato “Dreamweaver” su Noise Records.
Nati a metà dello stesso decennio, dopo la consueta manciata di demo e alcune recensioni entusiastiche sulle riviste specializzate inglesi, i Nostri riuscirono a firmare un contratto con l’allora prestigiosa etichetta tedesca. L’età media del gruppo era tuttavia talmente bassa che, per mettere l’accordo nero su bianco, fu necessario aspettare il compimento del diciottesimo anno del chitarrista Andy Sneap; ora affermato produttore e curatore del remaster del disco cui si fa riferimento in questa recensione.
Con il debut album “History Of A Time To Come” dell’anno precedente gli inglesi fornirono comunque già prova di grande talento, costruendo trame più complesse del solito nel panorama thrash e mettendosi in mostra come uno dei gruppi più promettenti dell’ondata britannica del genere.
Per “Dreamweaver” i Sabbat assoldarono Simon Jones alla chitarra ritmica, garantendo al talentuoso Sneap la possibilità di concentrarsi unicamente sulla solista. Se nel debutto essi diedero sfogo a un’innovativa rabbia molto «annerita» nell’attitudine musicale, con il platter in esame si spostarono ancora oltre, riuscendo a compiere una marcata maturazione che trovò la sua massima espressione nella costruzione del singolo brano.

Veniamo al CD, ora. Non è necessario utilizzare l’abusato termine «progressive»; ma è doveroso ammettere che ci si trova davanti a un approccio diverso e, in una parola, personale. Per analizzare al meglio un lavoro come “Dreamweaver” è forse necessario utilizzare un doppio punto di vista: uno concernente l’aspetto strettamente musicale e l’altro – fondamentale per capire il disco e tutta la ricchezza del lavoro dei Sabbat – sul contenuto lirico, a cura del vocalist Martin Walkyier (diventato una delle figure centrali del pagan & folk metal). Musicalmente parlando, il contesto è assolutamente thrash di marca europea, orgogliosamente privo del benché minimo riferimento allo stile americano (diversamente, ad esempio, dei connazionali e contemporanei Slammer o degli stessi Xentrix). Il consueto tributo alla NWOBHM è pagato senza evidenti dipendenze: tutto il lavoro è pervaso da un’atmosfera cupa e, a suo genere, estrema che, nel corso degli anni, si scoprirà mietere vittime eccellenti (tra le quali Dani dei Cradle Of Filth che poi sponsorizzerà il ritorno sulle scene della band). Dopo un’intro breve e oscura, le danze si aprono con quella che forse è la canzone più rappresentativa del combo britannico, “The Clerical Conspiracy”: ritmi velocissimi anticipano improvvisi rallentamenti e ripartenze, le strofe sono gettate sull’ascoltatore senza cercare particolari simmetrie o semplificazioni mnemoniche e soltanto il chorus è tanto anthemico quanto memorizzabile. Le cose cambiano subito con “Advent Of Insanity”, ballata marinara acustica con tanto di sottofondo di onde e sartiame. Da parte dei Sabbat non c’è quindi il desiderio di annichilire l’ascoltatore con assalti sonori senza soluzione di continuità quanto, piuttosto, la voglia di creare un variegato scenario musicale dove – vedremo in seguito – le liriche hanno un’importanza fondamentale. I ritmi tornano a essere sostenuti con il seguito del platter, ma la capacità dei Sabbat è quella di inserire all’interno della singola canzone molteplici scenari, costruiti con movimenti diversi e con un rifferama estremamente vario e mai ripetitivo (fatte le dovute proporzioni, penso che un riferimento ai Dark Angel possa essere fatto: provate a confrontare “Do Dark Horses Dream Of Nightmares?” con un pezzo a caso da “Leave Scars”, per esempio …). Di cali di tensione, neanche a parlarne. Si può davvero parlare di un gruppo nel pieno della fase creativa e ciascun pezzo è carico di energia. Stacchi rallentati come in “The Best Of Enemies” e in “How Have the Mighty Fallen?” non hanno semplicemente lo scopo di dare respiro alla composizione, ma ne sono parte integrante e la arricchiscono. Tecnicamente parlando non siamo di fronte a musicisti che rimarranno nella Storia dei loro strumenti, ma forse per una volta questo è un fattore positivo, poiché è messa al centro la musica in quanto tale e non inutili – specialmente per il genere in questione – esibizioni di virtuosismi. Il trittico finale è altrettanto apprezzabile e il disco risulta compatto, pur rimanendo vario e completo. L’originalità rimane certamente la caratteristica fondamentale di questo lavoro, il quale, a parte qualche piccolissima ingenuità più che altro a livello di produzione, può essere apprezzato da qualunque appassionato a prescindere dal genere.

Per comprendere questo lavoro nella sua interezza, come si diceva prima, l’approfondimento sulla parte lirica è doveroso. In un periodo in cui è tanto di moda un approccio al pagan & folk da birrificio, non si può non rilevare come quello di Walkyier e soci fosse molto più spirituale e, diciamolo, culturalmente più profondo. Si tratta di un concept basato sul libro di Brian Bates intitolato “The Way Of The Wyrd”, un romanzo-documentario sul misterioso periodo in cui nella Terra d’Albione, Paganesimo e Cristianesimo s’incontrarono e scontrarono. Il libro narra le vicende del missionario Wat Brand inviato dalla Chiesa Cristiana a esplorare e a conoscere gli archetipi della Vecchia Religione e i suoi sacerdoti-sciamani, per meglio conoscerli e combatterli.

«How can we hope to save these Heathen, when we know not of Their ways …»

Questo viaggio diventerà un pellegrinaggio interiore per l’uomo di Chiesa che spesso sarà messo davanti a dubbi concernenti la sua stessa fede …

«Now I see that this quest is a test of my fidelity. Has God forsaken me? … »

… e finirà per non tornare più all’ovile, al fine di perseguire la piena conoscenza della Via Pagana.

«Yet why pay the cost for a Paradise lost, when here is An Eden of natures creation? …»


Ciò che maggiormente va apprezzato nei testi di “Dreamweaver” è che i Sabbat non si siano limitati nella mera descrizione di un libro, ma che invece siano riusciti nella stesura di versi dalla certa valenza letteraria; i quali, oltretutto, sono privi della rituale dipendenza dalla battuta. Anzi, al contrario, spesso sembra che siano le musiche a «seguire» l’incedere delle parole. Tutto ciò, senza il minimo deterioramento stilistico, sia chiaro.

Una band dalla vita brevissima, un album di culto che non può non essere presente nella collezione dei thrasher (e non solo) che cercano originalità e qualità.

Vittorio “Vittorio” Cafiero

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Track-list:
1. The Beginning Of The End 0:36
2. The Clerical Conspiracy 5:38
3. Advent Of Insanity 2:28
4. Do Dark Horses Dream Of Nightmares? 6:24
5. The Best Of Enemies 8:14
6. How Have The Mighty Fallen? 8:17
7. Wildfire 4:39    
8. Mythistory 6:48    
9. Happy Never After 1:02

All tracks 44 min. ca.

Line-up:
Martin Walkyier – Vocals
Andy Sneap – Lead, Rhythm and Acoustic Guitar
Simon Jones – Rhythm and Lead Guitar
Fraser Craske – Bass
Simon Negus – Drums
 

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