Recensione: Drive, She Said
Un anno indimenticabile per il rock melodico. Prolifico come pochi, ma, soprattutto, fornace di autentici capolavori e pietre miliari di uno dei generi più in voga nei dorati anni ’80: l’AOR. Dal Canada agli Stati Uniti, passando per l’Europa di matrice britannica, numerose opere dal sound travolgente, nonché più maturo e definito rispetto alla prima metà del decennio, alimentarono non solo la gioia dei numerosi ascoltatori e collezionisti, ma rappresentarono una grande fonte di ispirazione per i giovani gruppi emersi – nonostante la crisi di certe sonorità – negli anni ’90, e per coloro che, al giorno d’oggi, si sono assunti l’onere e l’onore di rinverdire i fasti di un tempo.
A scrivere la storia, al tramonto di un periodo sognante e mai dimenticato, sono lavori del calibro dei debutti discografici di band quali Giant e Mastedon – le prime stampe di “Last Of The Runaways” e “It’s A Jungle Out There” risultando essere, tutt’oggi, veri e propri oggetti di culto per ogni collezionista accanito e non – dei Signal di Mark Free, Diving For Pearls, Bridge 2 Far, dei masterpiece britannici firmati Strangeways ed FM, fino ad arrivare ad artisti, forse, più “di nicchia” e dal nome (ahimè) meno blasonato, come Benny Mardones e Distance.
Aperto il forziere, contati i denari, valutati i gioielli, tra quelli dal maggiore fascino e attrattiva spunta il debutto discografico degli americani Drive She Said.
Il gruppo è formato dal master mind Mark Mangold – musicista/polistrumentista di grandi capacità compositive, fondatore dei Touch nel 1980, nonché partecipe di numerose collaborazioni, come quelle illustri ai primi due album di Michael Bolton (“Michael Bolton”, 1983, “Everybody’s Crazy”, 1985) e all’omonimo del già citato Benny Mardones (1989) – qui alla tastiera e alla batteria, e dal cantante/chitarrista/tastierista Al Fritsch, meno conosciuto e poco pubblicizzato, nonostante il grande talento.
L’alchimia emersa dall’unione delle idee ed inventiva di Mangold alla voce calda e suadente di Fritsch, dà origine ad un disco stupefacente, uno di quei lavori da ascoltare e riascoltare, stupendosi ogni volta di quanto sia fresco, ammiccante, passionale e coinvolgente, senza alcuna caduta di tono.
Le hard rock-oriented “Hard Way Home”, “Don’t You Know” (recuperata, riarrangiata e leggermente “irrobustita” dall’omonimo dei Touch), “Maybe It’s Love”, “Hold On (Hands Around Your Heart)”, “I Close My Eyes”, sono i capitoli più frenetici e attivi di un romanzo capace di catturare l’attenzione sin dal primo approccio, dove le chitarre e le tastiere fanno da perfette spasimanti alla superba prova vocale di Fritsch, molto spesso accostabile al miglior Jeff Scott Soto.
Maggior quiete è ricercata e magicamente trovata nell’opener “If This Is Love”, nelle romantiche “But For You” e “Love Has No Pride”, in “If I Told You” (tutte manifestazioni dove sono le tastiere ad emergere di più) e nella conclusiva “As She Touches Me (Why Can’t I Believe)”, la quale, anche se solo per un attimo, riporta alla mente i Foreigner di “Agent Provocateur”.
Dunque, chi si trova a dover giudicare un disco del genere non può che trovarsi in costante difficoltà. I classici complimenti quali “capolavoro” o “pietra miliare” non basterebbero infatti a sintetizzare l’aura di magia che questo lavoro reca con sé sin dal lontano – nel tempo, ma non certo nel cuore dei fan – 1989.
Da avere, custodire gelosamente, ascoltare, riascoltare e diffondere, in nome di quella musica paradisiaca e celestiale denominata Adult Oriented Rock.
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Tracklist:
01. If This Is Love
02. Hard Way Home
03. Don’t You Know
04. But For You
05. Love Has No Pride
06. Maybe It’s Love
07. Hold On (Hands Around Your Heart)
08. If I Told You
09. I Close My Eyes
10. As She Touches Me (Why Can’t I Believe)
Line Up:
Mark Mangold – Tastiere / Batteria / Back. Voc.
Al Fritsch – Voce / Chitarra / Tastiere