Recensione: Duél

Di Paolo Fagioli D'Antona - 7 Febbraio 2025 - 13:00
Duél
Band: Jinjer
Etichetta: Napalm Records
Genere: Progressive 
Anno: 2025
Nazione:
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80

Comunque vada Duél sarà un disco che rimarrà per sempre impresso nella storia dei Jinjer e che nessuno dei membri della band dimenticherà facilmente. Un disco nato da una delle circostanze più drammatiche che si possano immaginare, ossia quella di vedere il proprio paese invaso da una potenza militare straniera. Ricordiamo ancora tutti in maniera vivida il video YouTube di Eugene Abdukhanov, bassista della band, a poche ora dall’invasione Russa dell’Ucraina. In mezzo ai bombardamenti su Kiev, Eugene chiedeva aiuto al mondo intero, mentre molti di noi si chiedevano in che direzione stava andando a finire il nostro pianeta e se mai avremo rivisto Eugene e gli altri ragazzi vivi. Oggi sono qui per raccontarci del loro dolore, il loro sacrificio e del loro coraggio, per una band che è diventata portavoce nel mondo della lotta contro la tirannia e l’oppressione.

Duél, uscito a quattro anni di distanza dal precedente Wallflowers, vuole  rappresenta proprio questo e benché non strettamente un concept, risulta comunque una raccolta di canzoni in cui per ognuna di essa il tema centrale è il duello ,il sacrificio, la sfida, il conflitto, contro gli altri ma anche contro se stessi, contro la società e le sue costrizioni, contro la tirannia, ma anche contro le proprie abitudini, in una costante lotta nel migliorarsi come esseri umani. Dai riferimenti kafkiani, alla lotta per affermare il ruolo della donne in Someone’s Daughter, al temi legati all’oppressione e al “brainwashing” propagandistico in un pezzo come Rogue, alle sfide con se stessi per sconfiggere i propri demoni descritti in Green Serpent. Ogni brano si avvicina ad un concetto diverso legato alla resistenza e al duello, per un disco che musicalmente non si discosta troppo da quanto fatto dalla band dal periodo di Micro/Macro del 2019 in poi, con il four-piece ucraino assolutamente a proprio agio nella sua proposta che mescola groove, progressive e metal estremo. Le partiture, specialmente quelle della fase ritmica, continuano ad essere incredibilmente ricche, articolate ed ambiziose, per un Vlad ed un Eugene che continuano a rappresentare una colonna portante di una band dove ogni membro brilla di luce propria, a partire da Tatiana Smailyuk, una forza della natura ormai giustamente considerata da molti come una delle migliori vocalist del panorama metal attuale. Il suo growl è assolutamente devastante, le sue parti in clean emozionano, anche se forse il miglioramento che cade più all’occhio per quanto riguarda la vocalist ucraina è l’aspetto della scrittura dei testi, che riescono ad essere pungenti ma allo stesso tempo pregni di citazioni letterarie e di metafore, riuscendo a dare quel senso di “filo conduttore” attraverso i temi delle liriche di cui abbiamo parlato prima.

L’album, allo stesso mondo del suo predecessore si apre con un pezzo devastante, che dai suoi primi secondi di intro di batteria mette in chiaro lo stato di grazia del drummer Vlad, per chi non lo sapesse anche un ottimo chitarrista e una delle principali menti compositive della musica dei Jinjer. Ritmi serrati e furiosi, blast-beat violentissimi e una Tatiana Smailyuk in pieno spolvero con il suo growl, per un titolo, Tantrum, che già di per sé racconta molto del brano. Esso si tramuta nel ritornello in una sorta di semi-cantilena proposta in clean dalla stessa Tati, prima che il pezzo si tuffi nuovamente in sezioni violentissime. Lo stacco di basso, seguito dalla delicata voce della vocalist dona un elemento in più ad un pezzo che fa partire l’album decisamente con il passo giusto.

Hedonist (che si traduce in edonista, ossia una qualsiasi persona che segue una filosofia che identifica il bene morale nella ricerca del piacere, l’Edonismo appunto), prosegue su ritmi più cadenzati, in cui l’elemento groove della band viene presentato in maniera lampante, mentre la sezione ritmica continua a deliziare le nostre orecchie con partiture sempre intricate ed intriganti allo stesso modo. Non mancano sezioni più brutali anche in questo brano che esplora le dinamiche di una persona tentata dallo stile di vita descritto precedentemente e dal suo legame con esso.

Rogue è un brano che parla di dittatura e della propaganda come mezzo di “lavaggio del cervello”- emblematica è la frase “and his order has become their thought, take a listen, their mouths are fully loaded with his words, no thought of their own arose”- L’annientamento del pensiero individuale, ma anche l’oscurità della tirannia che raccoglie i suoi semi in un contesto dove le menti sono già state rese innocue e prive di una qualsiasi capacità critica- “the one-eyed is a king, he plants in their empty pots ugly rotten seeds”- Musicalmente Rogue è uno dei quattro singoli rilasciati come antipasto dell’album e restituisce all’ascoltatore dei Jinjer  un pezzo assolutamente devastante, con quella carica di groove e quei riff dal sapore djent che tanto cari sono alla band ucraina. Verso la fine il brano rallenta, ma si carica ancora di più di quella sverzata groove, con una Tatiana viscerale nell’urlare quel “take a listen! take a listen!”, in maniera quasi compulsiva.

Uno degli episodi più interessanti e distintivi del platter è Green Serpent che richiama per certi versi un brano come Wallflower dal precedente disco, nonostante questa composizione riesca ad unire le sue parti più delicate e soffuse con quelle più pesanti in una forma più amalgamata rispetto al brano già citato.  Un pezzo questo che mostra tutta la vulnerabilità della voce della Smailyuk, che si distingue per una sentitissima prestazione in clean, raggiungendo delle note alquanto alte se consideriamo la “confort zone” del suo range vocale.  Meraviglioso l’outro del brano che si tramuta da una sezione viscerale ad un’altra meravigliosamente delicata, costruita sulle linee di basso di Eugene che si ricollegano all’incipit del brano. A livello tematico Green Serpent affronta i temi dell’alcolismo, con il serpente usato come metafora di derivazione biblica nel suo ruolo di “tentatore” e la vigna come una sorta di giardino dell’Eden, dove l’alcolista viene tentato e successivamente reso schiavo dalla sua stessa dipendenza “it’s not him who drinks the bottle, it’s the bottle who drinks him”- una dipendenza che per il protagonista è una sorta di rifugio “the serpent gives an umbrella on a sunny day”, ma che in ogni momento può metterlo completamente a nudo quando meno se lo aspetta e proprio nei momenti più delicati della sua vita “…and takes it back when it rains”.

Kafka è un altro brano dal testo molto interessante, ovviamente legato ai lavori dello scrittore Boemo Franz Kafka, in particolare il romanzo “Il Processo”, che viene citato in più frasi del testo come per esempio in “One appeared infront of the jury, face covered against the wind”, per un brano che parla del concetto stesso di giustizia, ponendosi domande sul suo vero significato. Un brano che musicalmente ci mostra una Tatiana dalla vocalità delicata e vulnerabile nel suo incipit, per una composizione che acquista forza ed espressività nel suo incedere, prima di scoppiare in un’esplosione di blast-beat e furia nella sua conclusione.  Interessante la sezione dove la linea di basso di Eugene viene successivamente ripresa e ricopiata dalla chitarra di Vlad, per un “botta e risposta” molto interessante e ben riuscito.

Fast Draw dona proprio l’idea, già dal titolo, di due pistoleri pronti ad affrontarsi. Il primo che riuscirà ad estrarre la sua arma si vedrà vincitore, per un brano con dei riff insolitamente più “aperti” rispetto al tipico sound chitarristico della band molto incentrato sul djent e una sezione di canzone dove il riff portante suona molto simile a quello di War Ensemble degli Slayer (fateci caso). È un brano questo che ha quasi una componente punk/thrash, più diretto e meno intricato degli altri, ma comunque incredibilmente aggressivo, dove non mancano sezioni più “groovose”. Quel “Draaaaaaaaw” scandito e tenuto da Tatiana con il suo growl per diversi secondi, ricorda tanto lo stesso giochino vocale di un pezzo come Vortex dal precedente disco.

A Tongue So Sly regala all’ascoltatore un altro pezzo violentissimo, con delle sezioni vocali da parte di Tatiana assolutamente “over the top” e peculiari in pulito, che si discostano dalla pesantezza del brano e spiccano in maniera magnifica nell’economia della canzone. Questo è un pezzo fatto di alcuni start-and-stop mozzafiato, un piccolo gioiellino verso la fine del disco, anche se alcune sezioni in blast-beat sembrano andare un pochino con il pilota automatico.

Ma uno dei brani migliori del platter è senz’altro Someone’s Daughter, che si immedesima  nel ruolo della donna e del suo mondo interiore, riflettendo su svariate figure femminili che si sono ritrovate a dover impersonare dei ruoli originariamente ricoperti nella società da figure maschili.  Emblematica è la frase “you teach me how to be a man, though I am someone’s daughter, the path of a warrior was set for me and I had to try on the armour”. Questo brano è una rappresentazione di forza ed integrità nell’affrontare le difficoltà nella vita e le imposizioni circoscritte dalla società, un inno che valorizza la propria forza interiore e la propria resilienza, anche al cospetto di difficoltà insormontabili, “life feeds me bullets and stones, and I stich myself up alone”, per un brano che è una vera avventura sonora e rappresenta in tutto e per tutto le due anime del testo, quella più vulnerabile e quella più combattiva.

Ma il meglio forse arriva proprio in conclusione del platter con la title-track del disco che si apre con un’incredibile intro di batteria, prima che la chitarra granitica di Vlad assieme alla voce della Smailyuk dipinga per noi scenari desolati alla “Il Nemico Alle Porte”- “In the winters I see clear where the snowflakes gently sleep”- sembra veramente una scena tratta dal film appena menzionato, dove due cecchini, nella sconfinata vastità di una prateria Sovietica durante la seconda guerra mondiale pazientemente attendono un “passo falso” del proprio avversario. Un brano dunque che riesce a costruirsi una certa atmosfera di desolazione attorno alla sua strofa, prima di trasformarsi in un pezzo più groove-oriented con dei riff di chitarra quasi slayeriani, sulla falsa riga di quanto ascoltato in A Tongue So Sly. Il tipico sound dei Jinjer viene ritrovato tuttavia nella restante porzione del brano che vede una sezione ritmica sugli scudi, per un sound intricato, cervellotico, ma sempre di grande impatto.

In conclusione Duél ci restituisce una band che nonostante dal punto di vista puramente musicale non si avventura troppo al difuori della propria confort zone, regalando ai fan ciò che musicalmente avevano trovato sul precedente Wallflowers, ma anche nella combo Micro/Macro, riesce comunque a deliziarci e sorprenderci con brani pungenti, complessi, intricati ma allo stesso tempo d’impatto, con delle liriche nate dal dramma della guerra che la band ha vissuto sulla propria pelle e che riflettono il concetto di “duello” in ogni sua forma e sotto molti punti di vista diversi. Di certo qualche calo nella tracklist la abbiamo (come Dark Bile per esempio) e nel complesso per quanto ci riguarda i Jinjer non ritrovano le vette compositive di Macro, ma allo stesso tempo ci regalano l’ennesimo ottimo disco della loro carriera, con tanti pezzi di squisita fattura per un album carico di emotività e impatto che come il precedente Wallflowers tocca lidi di notevole ispirazione. Per il prossimo disco ci piacerebbe sentire qualche elemento completamente fuori dal coro, come la sezione reggae di Judgment And Punishment o le sezioni cantate in Russo di Retrospection. Ma per il resto i Jinjer continuano ad essere una forza indistruttibile nel panorama del metal contemporaneo!

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