Recensione: Dukes Of The Orient
Una delle “fissazioni” musicali del vostro umile recensore è rappresentata, come è noto ai miei venticinque lettori, dagli Asia. Nella vasta discografia della band inglese, un vizio particolare e non unanimemente condiviso, è quello per la parte dell’opera omnia uscita col monicker Asia che vedeva al basso e alla voce l’ottimo John Payne. Payne ha guidato (con Geoff Downes) la band per ben quindici anni, nella fase in cui John Wetton era in tutt’altre faccende artistiche affaccendato.
Molte, a nostro avviso, infatti, sono le piccole grandi perle musicali contenute in dischi come Aqua e Silent Nation (per citare solo il primo e l’ultimo album degli Asia con Payne), forse oscurate, per qualcuno, ed in parte, dalle meraviglie contenute nei lavori firmati dalla formazione originale.
E’ indubbio che la reunion della line-up originale nel 2006 abbia visto come soggetto in qualche modo penalizzato proprio John Payne, il quale ha ottenuto, però, il diritto legale di continuare a suonare con il nome Asia featuring John Payne.
Peraltro, in tale ultima formazione, egli è stato sempre affiancato da eccellenti musicisti, rimanendo però sempre non poco nell’ombra degli “altri” Asia.
Inoltre, proprio nel 2006, John Payne ha anche prodotto un ben accolto platter, “Window To The Soul”, con un’altra formazione, GPS (si trattava di un supergruppo che aveva portato avanti l’eredità artistica dei “suoi” Asia), ma il progetto non aveva avuto seguito con tale monicker.
Messo in atto una stretta partnership con il tastierista Erik Norlander (Lana Lane, Last in Line) e con il chitarrista Guthrie Gowan (poi fuoriuscito), il cantante/bassista, preso anche da altre collaborazioni (“The War of The Worlds”), ha proseguito, nel corso degli ultimi dieci anni, a realizzare brani inediti per la formazione alternativa degli Asia.
Al momento di dare alla luce le nuove canzoni, frutto di un lavoro, dunque, stratificatosi nel corso di due lustri, John, sia per evitare confusione con la formazione originale, sia per evitare critiche di speculazioni a seguito della triste scomparsa di Wetton, ha optato per un nuovo nome (comunque allusivo): The Dukes of The Orient.
E bene ha fatto, evitando così che questo primo lavoro, intitolato semplicemente “The Dukes of The Orient”, invero pregevole, possa essere liquidato immeritatamente come un mero prodotto collaterale degli Asia…minori!
Non che manchino, naturalmente, i riferimenti artistici allo stile di riferimento.
Ascoltando l’iniziale Brother In Arms, difatti, il pensiero corre subito agli Asia periodo Silent Nation grazie ad epicità, melodia, canto enfatico ed un suono dei tasti d’avorio più vintage.
Le stesse sensazioni vengono suscitare da Time Waits For No One, un uptempo orecchiabile pur se immerso in un clima epico e raffinato che rimanda ad album come Aqua e Aria.
Strange Days, ancora, ci fa tornare alla memoria il sound dei GPS: il brano ci delizia, infatti, con suoni melodiosi ed enfatici ma qui più catchy, nonché impreziositi con intarsi di chitarra elettrica e tastiere che si inseguono con grande classe.
Seasons Will Change è un altro equilibratissimo brano a metà tra raffinate elaborazioni prog e accessibilità sempre puntellata da toni stentorei e con un piede dentro l’AOR. Anche qui un synth dal suono “antico” cattura piacevolmente l’ascoltatore.
Give Another Reason si distacca dal resto del lavoro grazie ad una chitarra acustica con spunti latineggianti, ma non manca di affondi intensi di sei-corde elettrica e di pennellate di synth e di voce che ci trasportano nei territori un poco oscuri e misteriosi di Silent Nation. Si disegna, così, la traccia più prog e articolata del disco, addirittura con fugaci spunti ELP.
In A Sorrow’s Crown solennità e magniloquenza a profusione ci avvolgono grazie ancora alle tastiere di Norlander, e la grandiosità non manca nell’emozionante Amor Vincit Omnia, peraltro incentrata sul pianoforte e su un canto ad alto tasso di melodia.
“Dukes Of The Orient”, in definitiva, col suo AOR venato di prog (o prog venato di AOR, se preferite!), dalla grande raffinatezza e sempre in grado di essere coinvolgente e maestoso senza risultare stucchevole o pretenzioso, è un album piacevolissimo e mai banale, che ci consente di dare un caloroso bentornato a John Payne (ed ai suoi ottimi sodali) grazie a composizioni ed arrangiamenti di preziosa ed elegante qualità.
Francesco Maraglino