Recensione: Dusk of the Ages
Introdotto da una copertina molto affascinante (realizzata, tra l’altro, da quel personaggione di Kris Verwimp), il successore di “Songs From the Earth” dei Furor Gallico è finalmente giunto nelle mie mani. Sono occorsi tre anni alla compagine di Davide “Pagan” Cigalese, ma non ho dubbi nel dire che l’attesa è stata premiata: i nostri raggiungono, col loro terzo album (in uscita a giorni), la perfetta sintesi della loro proposta, levigandone vari aspetti senza snaturarla e scartando gli svolazzi superflui o fuori contesto, condendo infine il tutto con atmosfere ricercate e molto evocative. Per certi versi “Dusk of the Ages” è esattamente ciò che mi aspettavo dal quintetto di Monza, mentre per certi altri ammetto di essere rimasto spiazzato. Procediamo con ordine: come forse molti di voi sapranno, i Furor Gallico propongono un folk metal sfaccettato ma piuttosto arcigno – tendenzialmente lontano dalle gioiose melodie da festa di paese di molti colleghi – capace di passare con facilità da leggiadri e bucolici fraseggi di arpa e violino alla violenza del metallo più sferzante. Ciò che riesce loro così bene (e che me li fa apprezzare nonostante da tempo non sia più un amante del folk metal) è fondere in maniera organica i due aspetti portanti della loro musica, quello più legato ad atmosfere celtiche e quello più duro e aggressivo, facendo in modo che non si sopravanzino l’un l’altro. Il mix dei Furor Gallico risulta, pertanto, perfettamente omogeneo, anche grazie a tracce avvolgenti, solide e molto ben strutturate.
Tra le sorprese di questo “Dusk of the Ages” va citato l’inserimento della voce pulita femminile, che si affianca a quella di Davide quando non concentra addirittura su di sé l’attenzione generale – si veda ad esempio nell’introduzione di “Waterstrings” – infondendo alle composizioni un’anima più delicata e fragile a mio avviso molto azzeccata. Anche Davide, per parte sua e per il mio sommo gaudio, continua in questo terzo album a sfruttare maggiormente la voce pulita: scelta secondo me vincente, che gli permette di usare i suoi toni più morbidi e caldi in più di qualche sporadica incursione senza abbandonare il suo scream acido (che però, devo dirlo, continua a sembrarmi troppo forzato). Scompaiono infine gli accenni più scherzosi (niente “Squass” a questo giro) per conservare una solennità di fondo che pervade tutto l’album, con atmosfere che rendono le canzoni di volta in volta maestose, epicheggianti o malinconiche.
Partenza compassata con la sciamanica “Passage to a New Life”, intro atmosferica dalle trame ipnotiche ed inquiete che apre la strada alla debordante “The Phoenix” e i suoi blast beat a raffica. Il growl di Davide si appropria subito della scena, sorretto da riff dinamici e secchi, salvo poi essere sostituito dalla placida voce femminile per una prima, breve incursione. La canzone giocherella con quest’alternanza tra dolcezza ed aggressività per tutta la sua prima metà, caricandosi di pathos nella sua parte centrale, più dilatata, prima di tornare all’alternanza già incontrata che ci conduce all’arpeggio delicatissimo di “Waterstrings”. Qui, come già accennato, la scena è tutta per la voce femminile, almeno per quanto riguarda l’incipit. Dopo un minuto, infatti, la canzone esplode in un mid tempo agile in cui il growl e la voce femminile si sposano molto bene, ma è col ritornello a doppia voce pulita (forse un po’ ruffiana ma dall’indiscutibile impatto) che i nostri si giocano il carico pesante, alzando l’asticella del coinvolgimento di una traccia che non fa che migliorare con l’ingresso in scena del piano, che apre a un intermezzo più celtico. Il brano si carica di pathos per una progressione che sfuma di nuovo, in prossimità del finale, nelle tranquille note d’arpa. Neanche il tempo di riprendere fiato che con “Nebbia della Mia Terra” si torna a calcare la mano con un brano di tutto rispetto. Melodie folk guidate da flauto e violini e atmosfera epica si mescolano a riff corposi, per un brano che mi ha ricordato i “Venti di Imbolc” del primo album per la facilità con cui si passa da fraseggi arcigni, frustati di tanto in tanto da accelerazioni black, ad altri più maestosi e trasognati, figli di un comparto strumentale che, ormai, sa perfettamente come muoversi in certi territori. Altra canzone, altra variazione sul tema: l’arpeggio acustico di “Canto d’Inverno” incede bucolico, rilassato, confortevole, col violino che tesse melodie serene per la doppia voce; gli strumenti si avvicendano senza fretta, sorretti da rullate marziali ma, almeno durante la prima parte, anche molto discrete. L’improvviso incattivimento dura giusto il tempo di una raffica di vento, tornando poi al placido trionfalismo poco prima dell’assolo che chiude un altro gioiellino.
“Starpath” alza i giri del motore, per una traccia robusta ma non priva di una certa maestà di fondo, con trame enfatiche che lasciano comunque intravedere spiragli più agresti, mentre “Aquane” prende la rincorsa lentamente, con la sua delicata introduzione che si carica via via di solennità per esplodere di colpo in una traccia insistente e nervosa. Anche qui le diverse anime dei Furor Gallico screziano la canzone con i loro profumi, ma in questo caso (anche per una resa di Davide a mio avviso troppo carica) il tutto mi sembra gestito in modo meno fermo e controllato del solito, creando così un vortice sonoro iracondo ma confuso. Si prosegue con l’atmosfera rilassata di “The Sound of Infinity”, intermezzo crepuscolare e malinconico in cui, ad un tratto, si fa’ largo una certa distaccata frenesia che, in chiusura, lascia il posto a toni più solenni che, neanche a farlo apposta, troveremo nella title track. L’apertura sontuosa di “Dusk of the Ages” scivola nel growl durante la strofa, per poi tornare al trionfalismo spinto del ritornello; la canzone procede così, inframmezzando ritmi pulsanti, da cavalcata heavy, ad aperture maestose in cui torna a farsi sentire la voce femminile, per poi chiudersi di nuovo nella calma introspettiva dell’arpa. Chiude l’album “The Gates of Annwn”, traccia inizialmente frenetica e nervosa che poi si assesta su velocità più contenute ma comunque agili. Brevi accelerazioni tornano di tanto in tanto a donare brio al pezzo, sfumando però rapidamente in toni e profumi maggiormente evocativi. La pausa centrale, in cui il mai sopito violino torna ad accentrare su di sé l’attenzione, apre all’assolo di chitarra e al finale trionfale, il cui ultimo vagito sfuma in un arpeggio più dimesso e malinconico.
Al termine del’oretta scarsa lungo cui si snoda “Dusk of the Ages” posso dirmi soddisfatto: il lavoro svolto dai Furor Gallico è senza alcun dubbio degno di nota e, nonostante qualche sbavatura qua e là, non ho dubbi nel definire questa loro ultima fatica un passo avanti rispetto ai suoi (comunque degni) predecessori; le canzoni si mantengono quasi tutte su un ottimo livello con, in più, l’aggiunta di due o tre pezzi che da soli valgono il prezzo del cd, e anche le atmosfere create avvolgono molto bene l’ascoltatore – cosa che peraltro si può dire di ogni lavoro del gruppo lombardo – trasportandolo in un mondo magico e dai profumi antichi. Ottimo lavoro, signori.