Recensione: Dust to Gold
Accostarsi ad un album degli svedesi Bullet può essere un’esperienza a due facce.
Un misto di sensazioni ingombranti di deja vu, con la pesante idea di essere al cospetto, magari, di buonissimi cloni di roba già sentita un milione di volte e, pertanto, del tutto trascurabili.
Oppure, una sana sventagliata di energia, familiare nel suo essere fedele a canoni già molto conosciuti e proprio per questo corroborante, facile da apprezzare e soprattutto godibile senza particolari difficoltà.
Già perché ai Bullet, band di Växjö arrivata al ragguardevole traguardo del sesto album in quasi diciotto anni di carriera, la roba vecchia, diciamo “vintage”, piace davvero parecchio.
Al punto da farne uno stile di vita sbattuto orgogliosamente sul muso di chiunque ne incroci la strada, che sia tracciata dalle note di un vetero heavy rock ottantiano, o più tradizionalmente percorsa dal loro fidatissimo tour bus, un vecchio Volvo B63508 che troneggia con fierezza sulla copertina del loro ultimo disco “Dust to Gold”, uscito proprio in queste settimane per SPV.
Non c’è nulla di insolito, niente che possa far esclamare “toh, ‘sta cosa non l’avevo mai ascoltata”, nemmeno una briciola minuscola di audacia nel tentare qualcosa di originale. Tutto è smaccatamente ricalcato sulla santissima triade Ac/Dc, Accept, Motorhead e non ammette alcun tipo di modernismo o concessione al nuovo che avanza.
Eruttato dal cuore del 1984, “Dust to Gold”, come già i precedenti album del quintetto, non cerca proprio nemmeno per sogno di offrire un’idea diversa da quella che ci siamo fatti nel corso degli anni dei Bullet: una band di romantici che vive ancorata al passato, non sa cosa siano le nuove tendenze e, tutto sommato, se ne sbatte con protervia.
Dopo tutto, ci vuole una bella dose di personalità anche per sostenere una tendenza simile, costruita tutt’intorno ai cliché e ad un modo d’essere che è talmente vicino al plagio da apparire, a tratti, quasi provocatorio.
Se però, mandando al tappeto per un attimo i soliti pensieri incatenati al doversi per forza distinguere, anche loro triti e ritriti a dismisura, ci si trova ad ascoltare il loro cd (questo come uno qualsiasi dei precedenti) senza prenderla troppo sul serio, può capitare persino di divertirsi, al punto da trovare tutto quanto parecchio godibile ed al riparo da grosse paranoie. Con tantissimi saluti all’originalità a tutti i costi.
Canzoncine agili, sciolte e scattanti come “Speed and Attack”, “Fuel the Fire” e “Screams in the Night” (si noti il sublime “taroccamento” anche dei titoli) volano via veloci e scendono come una sorsata di birra fresca, di quella forse non di marca, doppio malto o premium, ma che quando è gelata di frigorifero e fuori ci sono 35 gradi, pare un nettare degli dei.
E questo sono, sono stati e saranno sempre i Bullet.
Un gruppo che sin dal primo solco pare una specie di cover band, un plagio, una battuta, uno scherzo. Ma che poi, mano a mano che la musica scorre, finisce per piacere, in omaggio a tutto quell’immaginario indelebile di radice ottantiana che rivive nelle loro canzoni.
La vocetta stridula di Dag Hofer, tanto simile a quella di Udo, i giochi di chitarra sciorinati da Hampus Klang e Alexander Lyrbo e la sezione ritmica pulsata dai due Gustav, Hjortsjö e Hector, sono il solito inno allo speed metal mescolato alla NWOBHM ed all’heavy tedesco.
Roba semplicemente strasentita. Melodie ultra-stereotipate e sempre inchiodate sui medesimi canoni stilistici. Che però, nella loro linearità, riescono spesso a strappare un sorriso e si permettono il lusso di divertire con leggerezza.
Nulla più, nulla meno: prendere o lasciare.